Il passaggio alla fase post-moderna si apre con il diffondersi dell’economia finanziaria globalizzata, con la quale si sono alimentate nuove ricchezze, nuove povertà e schiavitù, compreso il terrorismo internazionale. Senza una regolamentazione valida per tutti e un controllo sovraordinato (Global legal standard) era prevedibile che la deregolamentazione degli anni ’80-90 avrebbe reso ancor più corruttibile l’ordine privatizzato, perché fondato su regole di una “lex mercatoria” la cui fonte erano le law firm.
Che il mercato da solo non fosse in grado di autoregolarsi era teoricamente noto, ma nel 2008 se ne è avuta la prova empirica, reale e sociale, alla quale la soluzione adottata dalle élite è stata in linea con il credo neoliberale: privatizzare i profitti sociali e socializzare le perdite individuali. Su richiesta dell’autorità politica, che ha la responsabilità fiscale, in coordinamento con le tecnocrazie indipendenti che gestiscono la moneta, le banche centrali, si è applicato il bail-in al settore privato finanziario e bancario too big to fail. Un principio che da sempre si applicava allo Stato, unico detentore legittimo dell’apparato che con l’esercizio della guerra era fondativo della sovranità, ma che questa volta è stato concesso dagli Stati a soggetti privati, le banche. Un salto logico rispetto all’ordine vestfaliano.
Il mantra del “Tina”
Si è continuato ad attaccare il Welfare State costringendo gli Stati a reintrodurre il deficit spending privatizzato, ripetendo (Tina – There is no alternative) che la crisi potrà essere superata solo attraverso la riduzione del debito pubblico, ma dimenticando che esso serve a tenere insieme il rapporto di capitale in un momento in cui la rottura sociale è profonda.
Il bail-in ha fatto esplodere le dinamiche del comando e della crisi neoliberale, facendo emergere le tensioni soggettivanti di una moltitudine di individui che già vivevano in condizioni di immiserimento e assoggettamento al sistema capitalistico neoliberale: dalle massicce proteste a Seattle a quelle di Occupy Wall Street, la moltitudine degli esclusi ha di fatto “politicizzato” la gestione tecnocratica e l’indipendenza della moneta, delle banche e del sistema finanziario. Le manifestazioni dei lavoratori cognitivi e precari – Gezi Park, Indignados, No Tav, Gilets Jaunes e tanti altri – non erano delle post-moderne “neoplebi desideranti”, ma dei “giacobini del terzo millennio” che, mentre chiedevano la tutela dello Stato, hanno incontrato la repressione degli apparati di sicurezza in nome del “rispetto delle regole”. Quali regole?
La politica, avendo perso il controllo della moneta, cioè della politica economica, si esprimeva in discorsi deboli sul lato della speranza e poco credibili su quello della fiducia, mentre il capitalismo finanziario erodeva la proprietà, in particolare la piccola proprietà e il risparmio. Mentre i princìpi dell’economia reale sono stati sostituiti dall’assioma egoista del “valore agli azionisti” (shareholder value), che ha umiliato il lavoro produttivo privilegiando la rendita da valorizzazione, il perverso intreccio di tecnologia e consumo ha smesso di sostenere la crescita e quindi la speranza.
Poiché la rabbia sociale cresceva e si diffondeva, un nuovo lessico che non cambiava alcuno degli aspetti strutturali del capitalismo neoliberale fu lanciato in un’offensiva di pubbliche relazioni che oggi definiremo di stampo “populista”: “Time for mainstreaming human rights into Wto law”; “Doha Development Round”; “Geneva consensus”; “Humanising globalization”; “Poverty reduction”; eccetera. L’economia mondiale aveva smesso di “dare”. I cittadini votavano ovunque contro la globalizzazione, il mercato, e i “valori” neoliberali, riponendo la speranza nelle promesse salvifiche dei neonazionalismi e dei populismi. Il rapporto teleologico ordine liberale/democrazia è stato gravemente danneggiato.
I neoliberali non avevano pensato e progettato alcuna strategia per il downturn. Essendosi inceppato il sistema del “keynesianismo privato”, i neoliberali sostennero nuovamente il “keynesianismo monetario” attraverso le banche centrali: il noto “quantitative easing” che ha assorbito, e continua ad assorbire, una montagna di titoli di debito inesigibili delle banche private e degli Stati. Nessuna giustizia sociale o redistribuzione, ma solo iniezioni di moneta per tenere a galla il sistema finanziario. Una strategia che doveva essere emergenziale e transitoria, ma che è diventata strutturale, esacerbando la polarizzazione della ricchezza e aumentando la povertà della popolazione e l’indebitamento privato, e il debito pubblico degli Stati.
Il 2008 segna una rottura concettuale con il passaggio dal moderno – la relazione teleologica – al post-moderno, nel quale la società viene sussunta nel capitalismo finanziario che ne capitalizza in chiave produttiva ogni aspetto, attività, comportamento, desiderio, aspirazione e relazione.
Il “quantitative easing”, cioè il capitalismo finanziario privato delle banche centrali, si è sovrapposto alla sovranità degli Stati-nazione, realizzando un iper-capitalismo – “l’egemonia dell’immateriale” – e attraverso la trasversalità della “governance” globale ha trasformato gli Stati in una mera funzione della necessità capitalistica.
Il capitale finanziario occupa la vita dal di dentro, non estrae più il valore dai processi di produzione, ma blocca e subordina la capacità di espressione del valore a tutti i livelli, costituendo un global apartheid fondato su varie specie di esclusione che permette l’espropriazione del valore generato dal lavoro cognitivo. Questo processo è all’origine della “società dell’obbedienza” che si fonda proprio sull’interiorizzazione della relazione capitalistica da parte degli individui e degli Stati.
Il 2008 ha segnato la trasformazione del potere e della politica rispettivamente in biopotere e biopolitica. Una trasformazione che ha marginalizzato la democrazia nel rapporto teleologico, divenuto irrilevante. La nuova scienza del governo si presenta piuttosto come una tecnologia del potere che ha per oggetto la popolazione (biopotere) – attraverso dispositivi che investono collettivamente il lavoro, l’immaginario, la vita –, mentre la biopolitica è il controllo come tecnologia di potere – incarnata nel lavoro immateriale e collaborativo-reticolare del capitalismo cognitivo – che permette di governare la vita ormai sussunta nel potere.
L’affermazione del biopotere tecno-finanziario
Si identifica il sorgere della biopolitica nella pesante eredità del Patriot Act – che dall’11 Settembre ha reso strutturale il controllo garantito dallo stato di eccezione – ma si evidenzia che è nella decade obamiana che è emerso il contrasto già latente tra il progetto globalista di unificazione economica e tecnologica e il travolgente schema causale del capitalismo finanziario che genera autonomamente, dal suo non-luogo, l’ordine interno, imponendo modelli di regolazione che, distendendosi attorno a linee multinazionali, si concretizzano nella funzione politico-imperiale. Il capitalismo tecno-finanziario, come avvenne per il potere aereo rispetto alle forze terrestri e navali, ha stravolto l’ordine liberale, negando la geografia e, quindi, superando i limiti strategici della continuità e della discontinuità. Un paradigma assolutamente nuovo nel mercato e nell’economia, con evidenti effetti sulla politica e sulla sovranità degli Stati.
È nella decade obamiana che le compagnie del lavoro immateriale, del cognitivo, del reticolare – le Big Tech, i “capitalisti senza capitale” – hanno soppiantato i tradizionali listini di Wall Street. Ciò è stato possibile perché lo Stato ha permesso a queste corporations, fortemente deregolamentate, di usare l’ingegneria finanziaria in modo estremo e di operare come “sintetizzatori del potere dello Stato” rilasciato attraverso le gigantesche iniezioni di danaro prodotto dal nulla (quantitative easing). Il “gocciolamento verso il basso” (trickle down) della massa monetaria non è avvenuto se non in proporzioni marginali. È avvenuto il contrario, cioè la concentrazione della massa monetaria tra pochissimi attori finanziari più che economici: i principali beneficiari sono state le Big Tech e nel settore finanziario non regolamentato la più rilevante è la BlackRock. Ecco la nascita del biopotere tecno-finanziario.
L’iper-valorizzazione di alcune corporations – la nuova oligarchia mondiale dei tecno-miliardari, divenuti buoni con la mimetizzazione filantrocapitalista – rispetto a tutte le altre attività economiche ha stravolto il mercato, favorendo le rendite finanziarie rispetto al reddito da lavoro, facendo crescere i profitti ma non i salari, e creando polarizzazioni economiche e ineguaglianza sociale dovuta alla riduzione dei consumi reali.
Questa nuova oligarchia tecnologico-finanziaria globale dispone di quelle tecnologie del potere per il controllo della popolazione che hanno permesso di relativizzare i tradizionali meccanismi e le procedure che avevano fino ad allora caratterizzato la sovranità degli Stati. Il potere sovrano è l’origine o lo sfondo di contrasto su cui si è affermato il processo biopolitico che, per la sua complessità, ancora non è decifrabile in senso prevalentemente affermativo: come potenza produttiva di vita o, invece, nei termini negativi della sua chiusura impositiva e violenta.
Per capire il biopotere delle Big Tech è utile vedere la risposta dell’industria tecnologica alla crisi elettorale americana del 2016, che rispecchiava il comportamento del settore bancario sulla scia della crisi finanziaria del 2008: ogni bit di informazione utile sull’ingerenza elettorale doveva essere strappata ai titani di Wall Street e, oggi, a quelli della grande tecnologia. Ma anche BlackRock gestisce una montagna di dati nella sua “riservata” struttura tecnologica e informatica di gestione degli investimenti, un biopotere del tutto simile a quello delle Big Tech, che si esplicita nella forma di governo-ombra nell’influenzare gli orientamenti di policy e della governance in una molteplicità di settori.
Nel quadro dell’“economia della sorveglianza” la nuova materia prima per l’accumulazione capitalistica sono le persone, noi tutti. Appaiono obsolete le categorie lasciateci dalla modernità: il lavoro, lo stesso concetto di capitale e quello di Stato, le definizioni di diritto e quelle di nazione, le categorie del diritto internazionale e di società internazionale, eccetera. La rottura del rapporto teleologico ha avuto come conseguenza il declino della democrazia che si manifesta proprio con il grande squilibrio creato tra il ruolo degli interessi corporativi e quello di virtualmente tutti gli altri gruppi.
L’enorme accumulazione di capitale finanziario in un ristretto circolo di oligarchi cosmopoliti ha accresciuto le diseguaglianze esasperando anche gli squilibri di potere. Inoltre, sfruttando la porta d’ingresso della governance, il capitale tecno-finanziario ha occupato tutti gli spazi di policy nazionali e multilaterali – acquisendo anche il controllo dell’Onu – grazie all’imposizione dell’ideologia irrinunciabile dei partenariati pubblico-privati (public-private partnerships).
Grazie al disimpegno della funzione pubblica, il biopotere e la biopolitica del capitalismo tecno-finanziario stanno realizzando in forma strutturalmente privatistica il progetto che fu neoliberale, cioè la creazione di quella “federazione mondiale” per garantire la depoliticizzazione dell’economia.
Così, i governi e le popolazioni sono subordinati a un indottrinamento razionale – aziendale, profitto-centrico – sostenuto da una pervasiva retorica sentimentale trasmessa su tutti i media.
(3 – continua)
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