L’opera dell’ammiraglio Alfred Mahan (1840-1914) ha avuto un’influenza diretta sui decisori americani, anche durante la vita del suo autore. Da allora, non è mai stato sostanzialmente messo in discussione, poiché gli Stati Uniti hanno continuato a rafforzare il loro arsenale marittimo fino a disporre di un apparato militare che oggi non ha rivali. Questo studioso così come la sua opera è di decisiva importanza per comprendere le principali direttrici della politica estera americana, ma anche di quella cinese.



L’analisi storica di Mahan vuole essere pratica. Egli non manca di ricordare che il suo obiettivo è quello di “trarre dagli insegnamenti della Storia alcune deduzioni vantaggiose per il nostro Paese”. Tuttavia, secondo lui, la situazione degli Stati Uniti è la più scomoda, proprio perché non si sono dotati di una potenza navale degna di questo nome. Priva di punti di appoggio offshore (colonie, basi militari) come il Regno Unito, la marina statunitense è condannata all’impotenza. Le sue navi, dice Mahan, sono come “uccelli terrestri”, incapaci di volare lontano dalle loro coste. Fu con l’obiettivo di convincere i leader americani della necessità di dotare il Paese di potenza marittima che Mahan pubblicò nel 1897 il suo libro sugli interessi americani nella potenza marittima. Vi troviamo otto articoli pubblicati tra il 1890 e il 1897, in cui spiega ai suoi concittadini la necessità che gli Usa colmino la loro lacuna.



Apertura ai mari

L’apertura ai mari viene presentata come inevitabile. Lo sviluppo economico del Paese richiederà prima o poi di offrire sbocchi esterni: “Siamo impegnati negli affari della grande famiglia delle nazioni e dovremo accettare gli oneri che ne derivano”. Mahan è preoccupato per la sproporzione tra le dimensioni limitate della marina statunitense e l’entità delle “responsabilità esterne, oltre il mare”, che ricadono sul suo Paese. Teme soprattutto le conseguenze della trivellazione del Canale di Panama. Secondo lui il principale risultato politico del Canale istmico sarà quello di avvicinare la costa del Pacifico, non solo a quella atlantica, ma anche alle grandi marine europee.



Militarmente parlando, e riferendosi solo alle possibili complicazioni con l’Europa, nello stato attuale della impreparazione militare e navale americana la perforazione dell’istmo viene letta come un disastro per gli Stati Uniti. Affinché le cose siano diverse, insiste Mahan, il Paese deve dotarsi di una potenza navale in grado di affrontare le sfide. Per questo la politica estera americana dovrà attenersi a quattro imperativi: rafforzare la difesa costiera degli Stati Uniti, in particolare fortificando i principali porti che devono diventare bastioni inespugnabili; sviluppare una flotta da guerra in grado di effettuare azioni offensive dissuasive, “un fattore della massima importanza negli affari internazionali”; stabilire un perimetro di sicurezza di 3mila miglia nautiche al largo della costa di San Francisco, in cui nessuna potenza straniera abbia un punto di ritrovo per la propria flotta. Questo per evitare che nel Pacifico si crei una situazione simile a quella dei Caraibi, dove le potenze europee dispongono di punti di collegamento che permettono loro di approvvigionarsi proprio alle porte degli Stati Uniti. Con questo obiettivo, Mahan sottolinea la sua natura strategica nel Pacifico e insiste sul fatto che se gli Stati Uniti non prendono il controllo, un’altra potenza lo farà indebolendo l’America.

L’imperialismo di Mahan non è quindi un colonialismo, che sarebbe comunque inammissibile negli Stati Uniti, Paese fondato sulla lotta contro il colonizzatore britannico. Se Mahan chiede di conquistare terre, è per renderle basi strategiche e non per sfruttarle e ancor meno per popolarle di coloni. Le loro dimensioni non contano, ciò che conta è la loro posizione rispetto alle rotte marittime.

La dottrina Monroe

Anche se non affronta la questione di petto, è chiaro che l’enfasi di Mahan sulla potenza marittima mette in discussione la politica estera applicata fino ad allora dagli Stati Uniti. Questa, secondo la dottrina Monroe (1823), si basa sul rifiuto di ogni avventura interventista e sulla difesa dell’indipendenza del continente americano contro possibili tentativi di intrusione europea. Per certi aspetti, in particolare nel suo desiderio di respingere qualsiasi presenza europea lontano dalle coste americane, il pensiero di Mahan concorda con la dottrina Monroe. Ma il suo pensiero, che si colloca immediatamente su scala globale a causa del suo talassocentrismo, porta necessariamente a un’uscita degli Stati Uniti dalla loro sfera d’influenza regionale, che entra in totale contraddizione con i precetti enunciati a suo tempo da James Monroe e fino ad allora quindi applicati rigorosamente.

Attraverso i suoi scritti, Mahan ebbe un ruolo nella svolta imperiale compiuta dagli Stati Uniti alla fine degli anni 90 dell’Ottocento. Con l’avvento al potere dei repubblicani nel 1897, poté contare sull’appoggio del suo amico Theodore Roosevelt, allora vicesegretario della Marina, per propagare le sue tesi imperialiste. Ma fu soprattutto la guerra contro la Spagna del 1898 a segnare il trionfo della “dottrina Mahan” sulla dottrina Monroe, in nome della quale essa tuttavia si impegnava. Perché con il pretesto di cacciare gli spagnoli dall’America, gli Stati Uniti di fatto presero il controllo di un vero e proprio impero d’oltremare. Sebbene non abbia una superficie molto estesa, è comunque in parte costituito da territori strategicamente preziosi data la loro posizione sulle rotte marittime: l’isola di Guam, Porto Rico, Cuba, Wake, Midway, Samoa, Hawaii e Filippine. Questo impero fu difeso da Roosevelt, divenuto presidente nel 1901, che tre anni dopo attuò una radicale rilettura della dottrina Monroe conosciuta come il “Corollario di Roosevelt” e intesa a giustificare l’interventismo degli Stati Uniti nel continente americano.

Sebbene la dottrina Monroe fosse stata inizialmente concepita come uno strumento per contrastare l’imperialismo europeo nelle Americhe, fu trasformata da Roosevelt in uno strumento per giustificare l’imperialismo americano. Giustificato l’impero, Roosevelt si incaricò di garantirlo avviando, su consiglio di Mahan, un vasto programma di costruzione navale. Alla fine del suo mandato riuscì, nonostante l’ostilità del Congresso, a raddoppiare le dimensioni della flotta da guerra statunitense fino a renderla la seconda al mondo dietro a quella del Regno Unito. Infatti la marina americana diventerà poi marina d’alto mare capace di navigare su tutti i mari del mondo che conosciamo.

L’Asia

Ma l’interesse di Mahan era rivolto anche verso questioni più terrestri, come testimonia la serie di articoli riuniti nel 1900 in un saggio dal titolo Il problema dell’Asia e i suoi effetti sulle politiche internazionali. Il problema dell’Asia non è altro che quello che Kipling chiamerà più tardi “il Grande Gioco”, cioè la rivalità anglo-russa per la spartizione dell’Asia Centrale. Nella sua analisi, Mahan anticipa le riflessioni di Mackinder quando si preoccupa dell’immensa massa ininterrotta dell’Impero russo, che si estende senza soluzione di continuità territoriale dal meridiano dell’Asia Minore occidentale fino a est oltre il meridiano del Giappone. Il dominio russo sull’Asia è, tuttavia, messo in discussione dall’establishment britannico nella regione. All’impero continentale e settentrionale della Russia fa da contraltare l’impero marittimo britannico, che fa affidamento sulle basi costiere per penetrare nel continente asiatico da sud.

Tra l’Impero russo e l’India britannica, Mahan individua l’esistenza di una “cintura di divisione” che si estende dal Mediterraneo al Pacifico, un’immensa regione resa instabile dalla pressione contraddittoria che vi esercitano i due imperialismi rivali. La cintura di divisione è quindi chiamata a fungere da terreno di confronto nella lotta tra la potenza marittima britannica e quella terrestre russa. Essendo svantaggiata in prospettiva dal suo isolamento dai mari caldi, è logico, dice Mahan, che la Russia sia aggressiva. Per respingere i suoi tentativi, invocò un’alleanza quadripartita tra Regno Unito, Stati Uniti, Giappone e Germania, che identificò come potenze marittime per contenere il desiderio della Russia di conquistare i mari caldi. Con questo obiettivo le potenze marittime potevano sperare in una rinascita della Cina, con la quale era necessario sviluppare gli scambi commerciali per mettere in sicurezza questa parte della cintura di divisione contro una possibile incursione russa.

Il Medio Oriente

Oltre all’analisi che fece sull’importanza della potenza marittima nella storia, Mahan passò ai posteri anche per aver inventato l’espressione Middle East (Medio Oriente). Le tesi di Mahan furono introdotte e rielaborate anche nel Regno Unito da Julian Corbett (1854-1922) nei suoi Principles of Naval Strategy (1911), in Francia da Raoul Castex (1878-1962) in Strategic Theories (1929) e in Germania da Alfred von Tirpitz (1849-1930) che divenne l’artefice della Weltpolitik voluta da Guglielmo II. Ordinò persino che una copia del libro principale di Mahan fosse messa a disposizione dei marinai di ciascuna nave da guerra tedesca. Questa appropriazione germanica delle tesi di Mahan suscitò le peggiori preoccupazioni dello stesso mahaniano Winston Churchill che, convinto del ruolo determinante della potenza marittima nell’influenza britannica, considerava il desiderio tedesco di dotarsi di una marina come un crimine di lesa maestà. In un discorso pronunciato a Glasgow nel febbraio 1912, l’allora Primo Lord dell’Ammiragliato e come tale al comando della Royal Navy sottolineò così l’importanza vitale del controllo dei mari: “La marina è una necessità per l’Inghilterra; per la Germania un bene di lusso. Per noi è sinonimo di esistenza. Per quanto grande e potente sia la nostra marina, non siamo in grado di minacciare il più piccolo villaggio del continente europeo. D’altra parte, l’intero destino della nostra razza e del nostro Impero, tutti i tesori accumulati in tanti secoli di sacrifici e di imprese verrebbero spazzati via se la nostra supremazia navale venisse minata. È stata la Marina britannica a rendere il Regno Unito una grande potenza. La Germania era una grande potenza, rispettata e onorata su tutta la faccia della terra, prima che avesse una sola nave da guerra”.

La Cina

Oggi è in Cina che la teoria mahaniana della potenza marittima sembra trovare la massima risonanza. L’ammiraglio Liu Huaqing (1916-2011) era quindi considerato il “Mahan cinese” a causa della sua insistenza sulla necessità di dotare il suo Paese di “profondità strategica”. In tal modo, ruppe con una tradizione che risale a cinquecento anni fa, da quando l’imperatore Yongle aveva posto fine alle lontane spedizioni intraprese da Zheng He. Possiamo infatti vedere l’ispirazione di Mahan nello sforzo compiuto oggi dalla Repubblica Popolare Cinese di dotarsi di una marina e di una rete di basi all’estero, con l’obiettivo dichiarato di garantire le proprie vie di approvvigionamento di materie prime, ma anche, visto da Nuova Delhi, di trasportare un accerchiamento tattico del rivale indiano.

Questa strategia, definita dagli analisti americani il “filo di perle”, consiste nell’acquisire porti e basi aeree sulle coste del Mar Cinese e dell’Oceano Indiano, tutte porte di accesso al Medio Oriente e alle sue ricchezze naturali da cui il Medio Regno si sta dimostrando sempre più dipendente. Ma la strategia marittima della Cina integra anche un nuovo fattore che non esisteva ai tempi di Mahan: la questione delle risorse offshore. I numerosi conflitti di sovranità tra la Cina e i suoi vicini nel Mar Cinese Meridionale non sono solo il risultato di una strategia in stile mahaniano di dominio degli spazi marittimi, ma anche del desiderio di appropriarsi della ricchezza contenuta in questi fondali marini, lo sviluppo di tecnologie che oggi consentono di sfruttare le risorse sottomarine a profondità sempre maggiori.

I grandi teorici della geopolitica devono infatti portare a ripensare la geopolitica marittima da cima a fondo. Se ai tempi di Mahan il mare era soprattutto un luogo di circolazione – la sfida principale era quindi garantire la sicurezza e la fluidità dei traffici – oggi è diventato un luogo di sfruttamento della pesca e delle risorse sottomarine, il che spiega la svolta sancita dalla Montego Bay Conference (1982) verso la territorializzazione degli spazi marittimi, tendendo ad avvicinarli alle problematiche riscontrate sugli spazi terrestri.

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