Gli effetti della ritirata degli Stati Uniti dall’Afghanistan sono ben illustrati nella intervista del Sussidiario a Marco Lombardi, e non lasciano ben sperare. Il termine più adatto per descrivere il comportamento degli statunitensi sarebbe in realtà fuga, malgrado i tentativi di Joe Biden di farlo passare per un ritiro dovuto al raggiungimento dei risultati prefissati. Credo che nessuno gli abbia creduto, né in patria né altrove, ed è forse questa la ragione della mancanza di rappresentanti del governo al ritorno dei soldati italiani. Una mancanza di coraggio che stupisce, perché sarebbe stato corretto ammettere la sconfitta, dando al contempo atto ai militari italiani di aver compiuto fino in fondo il loro dovere.
Washington cerca di nascondersi dietro l’abituale cortina della propria autoproclamata superiorità morale, ma ciò risulta più difficile per la Nato, l’altro perdente nella avventura afghana, già da tempo in una crisi sostanziale e di identità. In effetti, ci si potrebbe chiedere quali potevano essere gli interessi di un’organizzazione che si definisce atlantica e difensiva in una guerra di attacco come quella condotta dagli Usa in Afghanistan.
La Nato è intervenuta in Afghanistan in base all’articolo 5 del Trattato, che prevede l’assistenza, anche militare diretta, dei membri dell’Organizzazione a chi di loro venisse attaccato in Europa o nell’America Settentrionale. L’Afghanistan è in Asia e non ha attaccato gli Stati Uniti, ma i talebani, dopo l’11 settembre 2001, rifiutarono di consegnare Osama bin Laden a Washington. Gli Stati Uniti intervennero subito militarmente, coinvolgendo poi la Nato con il ricorso all’articolo 5 per la prima volta nella storia dell’Organizzazione. Bin Laden fu ucciso nel 2011, ma la guerra è continuata per altri dieci anni contro i talebani, che pure erano stati aiutati dagli Usa quando combattevano contro i sovietici. E ora, gli americani e i loro alleati si ritirano lasciando campo libero a loro e ad altre formazioni islamiste, come fecero i sovietici sconfitti nel 1989, dopo dieci anni di guerra. La dissoluzione dell’Unione Sovietica avvenne poco dopo.
In un suo recente articolo sul Sussidiario, Leonardo Tirabassi propone un concreto parallelo tra la guerra in Vietnam e quella in Afghanistan, evidenziando la completa asimmetria in guerre combattute da una super potenza contro un esercito popolare. Tanto più se questo esercito è sostenuto da una forte carica ideologica o religiosa. Tirabassi cita anche una frase di un prigioniero talebano che è utile per capire meglio cosa può succedere ora in Afghanistan: “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”, e il tempo è Allah. Una frase che potrebbe senza dubbio essere condivisa, a parte il riferimento ad Allah, dai cinesi e anche dai russi, se si tiene conto di come questi ultimi hanno ricacciato le invasioni di Napoleone e di Hitler.
Un’osservazione pertinente, perché forse a Washington pensano che l’Afghanistan sia diventato un problema di Cina e Russia: le persecuzioni cinesi degli uiguri non possono certamente essere accettate dai talebani e i russi hanno già concreti problemi nel loro “protettorato” tagiko, come indicato da Lombardi. Inoltre, Biden ha lasciato, in un certo senso, a guardia dell’Afghanistan la Turchia di Erdogan, cercando così di accrescere gli attriti tra Ankara e Mosca, già evidenti in Siria e, soprattutto, in Libia.
Tuttavia, la frase sul tempo può essere applicata anche alla Turchia, come dimostra la guerra tra Azerbaijan e Armenia, con Ankara schierata con il primo e Mosca con la seconda. L’esito è stata una pace momentanea che, se ha apparentemente reso più evidente il ruolo della Turchia in Azerbaijan, ha di fatto rafforzato il controllo russo sulla regione. Il tempo dirà se la situazione volgerà verso un ampliamento del progetto neo-ottomano di Erdogan o verso un riassorbimento della regione nella Federazione russa.
Agli esiti incerti e ambigui derivanti dalla presenza turca in Afghanistan si contrappone un ulteriore peggioramento della situazione interna alla Nato, dato i conflitti esistenti tra Ankara e altre capitali europee, come Parigi e Roma. Macron non perde occasione per manifestare la sua avversione a Erdogan; Draghi, da parte sua, lo ha definito “un dittatore”, cosa peraltro difficilmente contestabile. Rimane il fatto che è poco accettabile l’utilizzo ricattatorio della questione migranti da parte della Turchia. Così come è inaccettabile l’atteggiamento di Ankara nei confronti di Italia e Francia circa l’esplorazione dei giacimenti di idrocarburi al largo di Cipro, cui si potrebbe aggiungere la illegittima annessione di fatto di una parte dell’isola.
C’è da chiedersi se l’articolo 5 del Trattato vale anche quando attaccato e attaccante facciano entrambi parte della Nato. Una domanda purtroppo non del tutto retorica.
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