È sempre più evidente che la “guerra mondiale” in corso non è quella che si combatte in Ucraina, pur inenarrabile nelle sue tragedie umane. È invece il sisma globale che ieri ha mandato in virtuale crisi il governo Bennett in Israele. È la frattura multipla che sta drammaticamente sgretolando la Ue: e non solo per le nuove tensioni fra Bruxelles e l’Ungheria di Victor Orbán (molto più grave è stato lo strappo fra la Francia e la Germania sul bando all’import di gas russo). È anche il pomeriggio da brividi che – ha raccontato il Financial Times – ha visto il premier italiano Mario Draghi dar fondo a tutto il suo “magic” per un compromesso fra Usa e Ue sulle nuove sanzioni alla Russia (per l’Italia comunque una buona notizia; e forse anche un nuovo indizio che la presidente in carica della Bce, Christine Lagarde, si accinge a tornare a Parigi come premier in caso di rielezione di Emmanuel Macron).
Il diario mediatico resta tuttavia assorbito dai report bellici e umanitari. O concentrato sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky: sempre comprensibile e ammirevole nel suo impegno, ma forse non lontano da una sua personale “linea rossa” quando ha lanciato all’assemblea dell’Onu l’abolizione stessa delle Nazioni Unite. L’unico luogo sul pianeta dove ancora sono obbligati a sedere allo stesso tavolo Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia.
Il primo e finora unico fischio indirizzato a un telediscorso di Zelensky era partito due settimane fa dai banchi della Knesset, il parlamento israeliano. Non tutti a Gerusalemme avevano gradito il parallelo fra le sofferenza delle popolazioni di Kharkiv e Mariupol e la Shoah: anche se a proporlo era stato il presidente israelita di una nazione martoriata dall’Olocausto nazista.
Sulle prime il mini-incidente era parso circoscrivibile alla tradizionale preoccupazione della società ebraica per la tutela della memoria assoluta della Shoah. Ma con il passare dei giorni è divenuto evidente che la Knesset – come anche in altre sedi di democrazia sovrana nel mondo – ha cominciato allora ad esternare i contraccolpi profondi alle onde geopolitiche propagatesi da Kiev: sempre poco inscrivibili nella narrazione di compatta “resurrezione occidentale” – anche di Israele – contro l’aggressività imperialista della Russia di Vladimir Putin. Nei giorni successivi – forse non per coincidenza – lo Stato ebraico si è poi ritrovato a fare i conti con un’improvvisa ri-escalation del terrorismo a sfondo islamico (nell’episodio più grave, vicino a Tel Aviv, cinque residenti in un’enclave ultraortodossa sono stati uccisi da un attentatore proveniente dai Territori palestinesi).
Ha quindi colpito ma non sorpreso del tutto che ieri il governo guidato da Naftali Bennett sia entrato in pre-crisi. È stata Idit Silman – compagna del premier nel partito Yamina (destra) e portavoce parlamentare della variegata maggioranza uscita dal voto 2021 – a gettare la spugna: togliendo a Bennett un voto decisivo (fino a ieri il 61esimo su 120). La motivazione è stata ufficialmente di politica interna, ancorché molto sensibile in era-Covid: il dissenso di Silman su una direttiva del ministero della Salute favorevole alla distribuzione di pane lievitato negli ospedali nel periodo pasquale.
“Non posso partecipare alla demolizione dell’identità ebraica di Israele”, ha tuonato la deputata, nota per posizioni conservatrici di stampo religioso. Ma ha accentuato la polemica politica contro il suo leader, augurandosi il ritorno di un “governo di destra, nazionale, ebraico e sionista”. Parole molto forti, chiaramente orientate a richiamare in scena Bibi Netanyahu. L’ex premier si è dovuto far da parte l’anno scorso – dopo dodici anni ininterrotti al potere – solo dopo il quarto voto anticipato in ventiquattro mesi. Lo ha rimpiazzato Bennett, suo ex supporter nel Likud e ministro, che a dispetto della sua provenienza è riuscito a formare una coalizione molto articolata: estesa al generale Benny Gantz, ripetuto sfidante di Netanyahu; ad alcuni partiti dell’ex opposizione di centro-sinistra, fino ai rappresentanti degli arabo-israeliani.
L’esordio di Bennett è stato in parte protetto dall’emergenza Covid: gestita complessivamente con successo da Israele. La crisi ucraina si è invece subito presentata insidiosa per il premier: che ha tentato il controbalzo di un blitz al Cremlino, spettacolare quanto infruttuoso (e apertamente sgradito a Zelensky). Si è offerto come mediatore avendo più di una carta da giocare, rivelatesi però poi tutte di difficile maneggevolezza. Almeno nel breve periodo.
Trascurando – ma non del tutto – la nazionalità israelita di molti oligarchi putiniani (il più noto è Roman Abramovich, candidato mediatore “bipartisan” fra Mosca e Kiev), la prima carta di Bennett era e resta lo status di alleato militare di fatto della Russia sullo scacchiere siriano in funzione di contenimento dell’Iran. Ma proprio il nodo iraniano è stato uno dei primi ad aggrovigliarsi dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Un nuovo accordo di non proliferazione nucleare con Teheran sembrava pronto per la firma, ma il tavolo (a cui sedevano Usa, Russia, Cina e Ue) è stato inesorabilmente rovesciato dallo showdown di fine febbraio (e la ripresa del terrorismo di matrice islamica in Israele non è probabilmente scollegata).
La spregiudicata strategia geopolitica a tutto campo sviluppata da “King Bibi” fra affari e tecnologie sensibili (non da ultimo con Pechino ma anche con l’Arabia Saudita) ed ereditata da Bennett rappresentava una piattaforma potenzialmente interessante per avviare una de-escalation fra Mosca e Kiev. Se ne è avuto sentore nel basso profilo tenuto da Gerusalemme nei primi giorni della crisi: non oltre l’adesione a una generica condanna dell’invasione da parte dell’assemblea Onu. L’autonomia attendista e il dinamismo “terzo” sono però diventati limiti quando l’amministrazione americana di Joe Biden è andata a sua volta in escalation contro Mosca. Ed è su questo snodo storicamente cruciale che gli osservatori stanno individuando una delle “faglie” globali messe in movimento profondo dal terremoto nell’Est Europa.
Le relazioni fra Usa e Israele hanno raggiunto un minimo negli otto anni di Barack Obama e Biden alla Casa Bianca. Troppo diversi e conflittuali il “premio Nobel per la pace subito” e il forte leader politico nel nazionalismo religioso ebraico: anzitutto chiuso a ogni ipotesi di Stato palestinese nei Territori e anzi via via proiettato verso piani annessionisti. Una prospettiva messa infine neo su bianco nel “piano Abramo” di inizio 2020 per iniziativa di Donald Trump: di cui “Re Bibi” è stato uno dei pochi, veri “good friend” sul pianeta (forse più di quanto sia stata effettiva la dibattuta sintonia fra il presidente americano e Putin). Non è probabilmente un caso che la caduta di Netanyahu sia coincisa con la sconfitta di Trump e il ritorno di Biden alla Casa Bianca (lo stesso passaggio avrebbe spinto Putin a preparare l’offensiva in Ucraina).
L’ascesa di Bennett – un finanziere conosciuto a Wall Street e con radici familiari in California – ha presumibilmente goduto di taciti appoggi a Washington: certamente interessata a chiudere a ogni costo l’era Netanyahu. Impossibile prescindere, nella democrazia elettorale israeliana, da un premier non di destra: il quale però ha dovuto rompere con il Likud e formare una (fragile) maggioranza “arcobaleno”. Nel frattempo l’obamismo di Biden ha presto riproposto contraddizioni già sperimentate: soprattutto sullo scacchiere mediorientale, oggi al riverbero della crisi ucraina.
È possibile accusare Putin di essere un un “criminale di guerra” perché vuole inglobare le aree russofone dell’Ucraina (senza dubbio con pretestuosità sanguinaria) e ignorare – almeno per ora – la strategia annessionista di Israele nei Territori? È d’altronde per presunta “debolezza sionista” che ieri il governo Bennett ha preso a vacillare. E la questione non pare solo di alchimie alla Knesset.
La frattura-Paese che ha costretto gli israeliani a votare quattro volte – quattro referendum contro Netanyahu, alla fine tutti a vuoto – è la stessa che attraversa la grande e potente comunità ebraica statunitense (sempre meno identificabile con i “liberal dem” di università, media e showbiz). Ed è, in ultima analisi, la spaccatura strutturale apertasi nella democrazia americana. È tuttora Trump (che abbia o no ispirato direttamente l’assalto al Campidoglio il 6 gennaio 2021) contro Biden: fermo e implacabile contro Putin (e Xi) ma debole in casa nei sondaggi per il voto “midterm” in autunno. Mentre i repubblicani (trumpiani o no) meditano già la rivincita alle presidenziali 2024: non diversamente da come Netanyahu scalpita per un’ultima battaglia a Gerusalemme.
L’evoluzione della crisi politica israeliana – non per caso qui e ora, non un mese fa o tra un mese – promette di dire parecchio anche sugli sviluppi del dramma ucraino i suoi dintorni planetari. Senza dimenticare che la “faglia” israeliana non è troppo diversa neppure da quella che sta scuotendo la Ue: che è diventata adulta nelle mani congiunte di Helmut Kohl e François Mitterrand davanti alle tombe di Verdun (cioè alla memoria di guerre mondiali suicide per l’Europa). Quelle mani hanno deciso la riunificazione tedesca e l’euro: la Ue di oggi, malgrado tutto; anche l’Europa del premier italiano in carica. Se le mani di Parigi e Berlino si sciolgono (e rifiutano quella di Roma) nessun Recovery Plan, nessuna nuova politica energetica, nessuna difesa europea sarà mai realizzabile. Nessuna Europa potrà sopravvivere.
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