Non si placa la pandemia in Cina, il paese dove tutto è cominciato. Se Wuhan e provincia non denunciano più contagiati, a Shulan, una delle maggiori città della provincia di Jilin, nel nord-est della Cina e non lontana dal confine con la Russia, è scoppiato un nuovo focolaio dell’epidemia di coronavirus. Dall’inizio della scorsa settimana è stato imposto ai suoi 700mila abitanti un lockdown rigidissimo, al pari di quello adottato proprio a Wuhan. Intanto Donald Trump attacca nuovamente Pechino e l’Oms, accusando la prima di aver tenuto nascosta la gravità del virus e la seconda di aver sempre coperto la Cina: il presidente Usa ha minacciato nuovamente di voler sospendere l’aiuto economico all’Organizzazione mondiale della sanità. Il tutto mentre oltre cento paesi in tutto il mondo hanno chiesto ufficialmente l’avvio di una indagine indipendente sulla Cina, proposta a cui il presidente cinese Xi Jinping ha risposto che si farà, “ma non adesso”. Ne abbiamo parlato con Francesco Sisci, giornalista e sinologo, già editorialista de Il Sole 24 Ore e corrispondente de La Stampa a Pechino.
Che cosa significa un nuovo focolaio in Cina? Le autorità cinesi non hanno controllato i flussi di spostamenti da una provincia all’altra?
La Cina ha 1,4 miliardi di abitanti ed è a un bivio. Se blocca i movimenti di tutti, ammesso che sia possibile davvero, viene accusata di controlli eccessivi. Se lascia maggiore libertà, rischia di aprire a un ritorno dell’epidemia. Pechino cerca di trovare un equilibrio, anche perché, come in tutti i paesi, se non ci si muove, l’economia si ferma e la gente muore di fame piuttosto che di polmonite. In tutto ciò c’è anche il problema delle campagne, dove non è chiaro davvero quale incidenza abbia avuto il male. Infine, resta la questione dei portatori sani: per quanto tempo continuano a essere attivi? Quindi, anche al netto di un isolamento dall’estero, non è chiaro quando la malattia sarà eliminata dalla Cina. Nuovi focolai saranno forse inevitabili.
In realtà i casi registrati nella provincia di Jilin sono pochi, circa 39, però le autorità sono ricorse a un lockdown durissimo. Un esperto di sanità pubblica all’Università di Pechino ha dichiarato al Global Times che la Cina “ora può gestire correttamente un piccolo livello di casi importati, ma deve correre subito ai ripari”. Come commenta?
In Cina c’è un’espressione che dice: “se sei stato morso da un serpente, poi ti spaventi anche a vedere una corda”. Al di là di quale sia la situazione nello Jilin, la Cina è spaventatissima, teme che la tragedia di Wuhan possa ripetersi, quindi anche poche decine di casi possono scuotere Pechino e indurla a misure drastiche. Il timore è un ritorno della malattia che metterebbe in ulteriore difficoltà economica, e quindi politica, il paese.
Taiwan è stata esclusa dall’assemblea dell’Oms in cui si parlava di Covid. Il segretario dell’Onu, Guterres, ha detto che non è il momento per una indagine sulle responsabilità della diffusione del virus. Anche l’Onu cede alle pressioni di Pechino come ha già fatto l’Oms?
Intendiamoci: Taiwan non è nell’Onu né nell’Oms, e questa è storia vecchia. C’è un dibattito oggi se sarebbe opportuno trovare un modo per far partecipare Taiwan all’Oms, visti i suoi buoni risultati nella lotta all’epidemia. Pechino non vuole o non vuole che ciò si trasformi in un riconoscimento politico di Taiwan come entità separata dalla Cina. Oggettivamente la minaccia di ritiro dei finanziamenti americani all’Oms e le continue polemiche Usa con l’Onu rafforzano la posizione cinese e indeboliscono quella americana, quindi anche di Taiwan. La Cina non è politicamente ingenua e forse l’America deve pensare a una strategia più complessa per affrontarla.
Il presidente Trump minaccia di rendere definitive la sospensione dei finanziamenti e la conseguente adesione degli Usa all’Organizzazione mondiale della sanità. Trump usa la pandemia per i suoi interessi politici contro la Cina?
Certo, come fanno la Cina e tutti i paesi al mondo. Nelle guerre, calde o fredde, si usa il terreno, le condizioni oggettive a proprio favore e contro il nemico. I russi vinsero Napoleone con la dissenteria e il tifo, che decimò i francesi; i sovietici contro Hitler sfruttarono l’inverno molto rigido. Oggi gli attori in campo cercano di usare la malattia a proprio vantaggio e contro gli altri. In questo senso l’epidemia è il frutto della tensione politica tra Usa e Cina, non è vero che la tensione politica bilaterale è conseguenza dell’epidemia. Se non si vede questo, si confonde il dito con la luna.
Ben 116 Paesi hanno annunciato di sostenere la bozza di risoluzione presentata dall’Ue per un’inchiesta indipendente su questo disastro planetario. Xi Jinping formalmente non ha chiuso all’inchiesta, ma ne vuole dettare i tempi e dice che per ora non si farà. Come giudica la sua posizione?
Credo che la Cina tema il fatto che aprirsi oggi a un’inchiesta significhi scoprire il fianco alle critiche politiche dei suoi nemici, come dicevamo prima. La Cina, quindi, forse vorrebbe una “intesa politica” prima dell’inchiesta. Ma gli Usa, a causa di quel che sta succedendo al loro interno, con quasi 100mila morti, 40 milioni di disoccupati e un Trump che rischia pesantemente di non essere rieletto, non vogliono e non possono fare alcuna concessione di questo tipo. In America sono divisi su tutto, solo l’opposizione alla Cina è l’elemento unificante, quindi è difficile immaginare passi avanti.