Nonostante il successo degli accordi firmati con gli Emirati Arabi Uniti e con Bahrein, ai quali si aggiungeranno altri Stati arabi in un prossimo futuro, quello attuale non è un momento facile per Israele.

Innanzitutto, l’aggravarsi della pandemia da Covid lo ha portato, da settembre, a un secondo rigoroso e prolungato lockdown con effetti molto negativi sull’economia del Paese. Le proteste, soprattutto delle piccole imprese e attività economiche, sono ora molto ampie e il consenso al governo si è dimezzato rispetto alla prima chiusura, avvenuta da metà marzo alla fine di maggio.



Le proteste per il lockdown non si limitano agli attori economici, ma pongono in rilievo le tante fratture che percorrono la società israeliana. Gli ebrei ortodossi, noti come haredim, più del 10% della popolazione, hanno contestato le restrizioni del governo che impediscono di celebrare nel consueto modo le importanti feste religiose ebraiche di settembre e ottobre. La questione ha dato luogo a scontri con la polizia e, per converso, a forti critiche da quei cittadini israeliani che vedono male il separatismo degli ultraortodossi, restii ad accettare la laicità dello Stato, pur traendo da esso benefici non riconosciuti agli altri cittadini. Il problema è che i partiti che ricevono i voti degli ebrei ortodossi sono fondamentali per la coalizione guidata da Benjamin Netanyahu e ciò ha portato a una progressiva maggiore caratterizzazione in senso confessionale dello Stato di Israele.



Su un altro versante, numerose e ampie le proteste di chi non accetta l’accordo di governo tra la coalizione di Netanyahu e Blu e Bianco, la coalizione centrista guidata dall’ex generale Benny Gantz. Le contestazioni sono da sinistra e rimproverano a Gantz un’alleanza considerata innaturale. Il movimento alla guida della protesta ha preso il nome di Bandiera Nera ed è sorto nel marzo scorso ad opera di quattro fratelli, ai quali si sono aggiunti da subito migliaia di altri israeliani. Il nome deriva dall’invito ad appendere una bandiera nera a balconi e finestre in segno di lutto per la morte della democrazia israeliana in seguito alla deprecata alleanza. Le manifestazioni sono continuate fino ai giorni scorsi, rendendo ancor più difficile la situazione del governo, dove le due coalizioni sono divise anche al loro interno.



Un altro motivo delle proteste è il rinvio a giudizio del primo ministro per tre presunti casi di corruzione e la sua resistenza ad essere giudicato, con l’accusa da parte delle opposizioni di pressioni indebite sulla magistratura. Uno scenario che porta qualcuno a chiedere nuove elezioni, sarebbero le quarte nel giro di due anni, una decisione decisamente problematica data la situazione sanitaria del Paese. Anche in Israele come altrove, il Covid sembra diventare un buon argomento per non far cadere i governi, qualunque siano le condizioni oggettive e le indicazioni che provengono dalla società.  

Un altro fattore problematico, sia politicamente che civilmente, è dato dagli arabo-israeliani, cioè dai cittadini israeliani di etnia araba, circa il 20% della popolazione, che si sentono discriminati, come evidenzia un recente articolo su Al Monitor. Viene particolarmente sottolineata la contraddizione tra la ricerca da parte di Netanyahu di accordi con Stati arabi e il suo comportamento ostile nei confronti dei suoi concittadini arabi. Ne è un esempio l’aver recentemente declassato l’arabo da seconda lingua ufficiale di Israele a lingua di “status speciale”. Arab Joint List (Lista Araba Unita), la coalizione dei quattro partiti arabo-israeliani, è risultata terza alle elezioni di marzo, ha attualmente 15 deputati sui 120 della Knesset, il Parlamento israeliano, ed è il maggior partito di opposizione. Joint List ha votato contro l’approvazione dell’Accordo di Abramo, come è stato definito l’accordo con Emirati e Bahrein.

Tra gli elementi esterni primeggia l’esito delle prossime elezioni presidenziali americane, data l’importanza dell’alleanza con gli Stati Uniti, molto solida con Donald Trump ma che potrebbe essere più fredda con Joe Biden. Su questo punto è interessante quanto riporta The Jerusalem Post e cioè la differenza di opinioni tra i cittadini israeliani e gli ebrei statunitensi. Secondo i sondaggi riportati dal quotidiano, il 63% degli israeliani dichiara che voterebbe per Trump e solo il 19% per Biden, percentuali rovesciate per gli ebrei cittadini statunitensi: il 70% sostiene Biden e solo il 27% Trump. È evidente che le priorità dei due elettorati sono diverse: per gli americani valgono i problemi interni, e il rapporto con Israele non è ai primi posti, mentre per gli israeliani è fondamentale la politica estera degli Stati Uniti e il loro atteggiamento verso Israele. E scarso rilievo ha il modo personale di porsi dei candidati, che sembra invece essere uno degli elementi della campagna negli States.

Nella situazione difficile in cui versa il Medio Oriente è importante che Israele mantenga un assetto stabile, un interesse non solo degli Stati Uniti ma anche, e soprattutto, dell’Europa, al di là delle simpatie personali o di partito.