Sembra che il 2020 abbia riportato il Medio Oriente sotto le luci della ribalta. Non era ancora passato l’impatto dei fatti iracheni che arriva come una bomba la proposta di pace di Trump per il conflitto israelo-palestinese e sposta l’attenzione del mondo in una delle tante aree di crisi di quello scacchiere. Ma attenzione, non si confondano i piani. Al centro delle preoccupazioni statunitensi rimane l’Iran, Stato-civiltà, nascente potenza nucleare che con la sua carica rivoluzionaria è in grado di sovvertire gli equilibri dal Mare Arabico al Mediterraneo, dallo Yemen al Libano.



È destinata a rimanere nella storia l’uccisione, il 3 gennaio del 2020, del generale iraniano Soleimani comandante delle forze speciali al–Quds, le truppe d’élite delle Guardie della Rivoluzione Islamica. Azione esemplare e paradigmatica della politica estera di Trump.

L’ eliminazione, o “omicidio mirato” in gergo militare, del numero due o tre nella scala gerarchica del potere di Tehran e uno degli uomini più potenti del Medio Oriente ha sollevato una serie di domande a cui non ci possiamo sottrarre. Ripetiamo per chiarezza i fatti.



Trump ha ordinato l’uccisione di un altissimo ufficiale nonché politico di uno Stato con cui gli Usa non sono in guerra, in un terzo paese, l’alleato Iraq, dove si trovano anche quasi 6mila soldati americani, lì per volontà del governo iracheno. Per di più, il missile ha ucciso anche un cittadino iracheno, il comandante delle brigate di Katai’b Hezbollah, Shibl al Zaydi, milizie a schiacciante maggioranza sciita, nate per contrastare l’Isis e controllate dall’Iran. Dunque dipanare la massa dei fatti e dei significati che l’azione comporta è faccenda piuttosto complicata, anche perché ci troviamo di fronte ad una sorta di cubo di Rubik. Ad uno Stato come il teocratico Iran, dove la politica e la lotta per il potere avvengono in modo non certo trasparente; all’Iraq, che ancora non è riuscito a trovare né la strada per una pacificazione nazionale né di conseguenza stabilità politico-istituzionale dopo decenni di guerra, diviso tra etnie, religioni, tribù; agli Stati Uniti, con una politica estera medio orientale che riguardo all’Iran e a Baghdad ha subito numerose svolte fino ad arrivare adesso alle azioni dell’imprevedibile, “isolazionista” e falco Trump.



Quindi la crisi coinvolge tre attori statuali, Usa, Iran e Iraq a cui si aggiungono un numero imprecisato di milizie con linee di demarcazioni le più varie, con potenze locali e internazionali ben interessate a quel quadrante della scacchiera. Una precisazione prima di procedere. Dopo che nel 2011 gli americani avevano passato tutti i poteri all’Iraq ed avevano lasciato il paese, gli Stati Uniti, assieme ai soldati di altri 22 nazioni, sono tornati in Iraq nel 2014, richiamati dal governo di Bagdad per contrastare l’Isis che aveva occupato una parte consistente del territorio e messo in fuga l’esercito iracheno in modo poco onorevole. Ma a combattere la sunnita Daesh in Iraq e in Siria era arrivato fin da subito anche Soleimani con i propri uomini e fornendo addestramento, finanziamenti ed armi alle milizie sciite irachene, tutte forze che operavano in modo indipendente dalla coalizione internazionale a guida Usa. Infatti, le brigate di Katai’b Hezbollah appena se ne è presentata l’occasione hanno agito secondo le più classiche logiche tribali,  perpetrando nelle zone liberate vendette atroci contro semplici cittadini sunniti, come ha accertato Amnesty International.

L’Iran infatti agisce con un disegno preciso, prendere l’egemonia regionale e realizzare sul terreno il sogno della mezzaluna sciita, unendo sotto un’unica bandiera le province sciite e farsi dall’Afghanistan al Libano con l’ambizione di veder rinascere l’impero persiano al di là addirittura dei confini stabiliti con il Trattato di Zuhab concluso il 17 maggio 1639 tra impero ottomano e Persia safavide.

Situazione complicata al sommo grado che coinvolge tutti i piani dell’azione politica. Vi è l’aspetto giuridico sia internazionale che interno agli Usa  (su quali siano le competenze del presidente Usa, per di più sotto inchiesta, davanti al Congresso; la liceità dell’eliminazione di un soldato ma con importanti ruoli politici di un paese non in guerra, il compiere un omicidio mirato in un terzo Stato senza chiedere l’autorizzazione né informare quelle autorità, e l’eliminazione per di più di un cittadino iracheno). Vi è l’aspetto di giustificazione politica immediata, di opportunità; in gioco vi è infatti la definizione dei rapporti con gli alleati, e poi la questione di fondo. Quale sia cioè il disegno complessivo del presidente americano riguardo al Medio Oriente, che visione geopolitica dell’area abbia in mente.

Rimandando ad altre occasioni le riflessioni sul piano giuridico, qui ci concentreremo solo sugli aspetti strategici. In sintesi le domande a cui si deve dare una risposta sono essenzialmente tre.

Primo. Si può giudicare razionale l’azione americana di eliminazione del generale iraniano?

Secondo. E quale visione strategica del Medio Oriente e dei rapporti internazionali sottintende, cioè quali sono gli obiettivi politici di lungo periodo che gli Usa vogliono raggiungere? E inoltre quale disegno generale dell’ordine del mondo emerge?

Terzo. Quali mezzi militari sono adatti ad essere impiegati per raggiungere questi obiettivi strategici? Precisazione necessaria di fondamentale importanza riguardo la distinzione tra obiettivi politici e mezzi militari perché spesso gli Stati Uniti sembra perdano la bussola, anche a causa della strabiliante forza militare di cui dispongono a cui fanno affidamento in situazioni difficili.

Quadro complesso, intricato, che porta con sé una conclusione sulle conseguenze, quelle prevedibili si intende, che tale grande strategia avrà per noi italiani ed europei, vicini di casa di quel Medio Oriente.

Per rispondere alla prima questione, riguardo alla razionalità dell’eliminazione di Soleimani, cioè se il singolo colpo risponda a qualche logica, la risposta emerge senza ombra di dubbio con chiarezza dalla politica di Trump nei confronti dell’Iran e si inserisce con continuità nella politica americana verso Teheran, pur divergendo dai metodi usati dal sua predecessore Obama. Gli obiettivi sono sempre gli stessi: l’Iran non deve avere armi nucleari; deve cessare la  ricerca di un’egemonia regionale, dall’Iraq allo Yemen, alla Siria e al Libano, sovvertendo l’ordine esistente ed utilizzando tutti gli strumenti compreso il terrorismo e le varie milizie straniere da Hezbollah ad Hamas; in ultimo, deve cessare di minacciare Israele e l’Arabia Saudita.

La strategia scelta da Trump per raggiungere questi obiettivi è quella che va sotto il nome di “massima pressione” contro il regime degli Ayatollah, scelta che prevede l’utilizzo di tutti gli strumenti a disposizione del potere nazionale. Risponde a questa logica l’uscita l’8 maggio 2018 degli Usa dal  Jcpoa, Joint Comprehensive Plan of Action, o Piano d’azione congiunto globale, che vede coinvolti i membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu, più la Germania e l’Unione Europea, tavolo di negoziato partito nel 2015.

La decisione unilaterale americana era stata accompagnata dall’imposizione da parte degli Stati Uniti di sanzioni economiche durissime con lo scopo di raggiungere molteplici obiettivi. Far cessare il flusso di finanziamenti da parte iraniana ai vari clienti stranieri, si intenda Hezbollah, Hamas, gli Huthi in Yemen e così via, con la conseguenza di dissanguare le casse dello Stato, ormai ridotte allo stremo, incrinando il consenso, e quindi la forza degli ayatollah. Da considerare inoltre che la rivoluzione causata dall’applicazione della tecnologia estrattiva del fracking, che ha portato gli Stati Uniti ad essere autosufficienti sul piano dei consumi petroliferi, toglie agli iraniani la potente arma del ricatto petrolifero e di una possibile impennata dei prezzi sul mercato mondiale.

Le conseguenze delle sanzioni sull’economia iraniana non si sono fatte attendere. Se si considera per di più che tali misure punitive hanno escluso l’Iran dall’acquisizione di tecnologie HT, si capiscono i motivi per cui il Pil si sia contratto nel 2019 del 9,5% e forse, se le cose non cambiamo, nel 2020 il Pil calerà più del doppio mentre l’inflazione viaggia al 30%.

Dal 3 gennaio di quest’anno va ad aggiungersi un ulteriore tassello, la deterrenza militare usata alla massima potenza con un atto micidiale dall’alto valore politico e simbolico, perché dimostra il predominio militare americano  grazie alla tecnologia, all’enorme impegno di soldi, alla rilevante rete di intelligence. Ma sopratutto manda in frantumi la percezione di impunità che avevano a Teheran, scambiando l’indecisione Usa per debolezza e incapacità, restituendo così fiducia agli alleati americani in Medio Oriente, sorpresi e impauriti dalla mancanza di reazione di Trump e dalle sue parole concilianti dopo l’abbattimento da parte iraniana di un drone americano il 20 giugno dello scorso anno e l’attacco ai pozzi di petrolio sauditi del settembre 2019 quando 20 droni e 11 missili, partiti da una base iraniana al confine con l’Iraq, hanno colpito i siti di Abqaiq e Khurais. Azioni culminate con l’uccisione del contractor americano a Kirkuq e l’assalto all’ambasciata americana di Baghdad, orchestrato secondo gli Usa dagli iraniani, in conseguenza del bombardamento di una base della milizia irachena.

Azioni però destinate a far cambiare idea al presidente americano, perché colpivano immediatamente l’autorevolezza Usa avendo anche un’enorme potenza mediatica. Si ricordino i giorni bui della presa degli ostaggi  dei 52 membri dell’ambasciata statunitense a Teheran, dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981, e l’orrore per l’uccisione dell’ambasciatore americano in Libia l’11 settembre 2012 a Bengasi.

Ecco allora il motivo del lancio del missile su Soleimani, che risponde perfettamente alla logica della deterrenza, della logica del colpo su colpo, affinché il nemico capisca in modo inequivocabile che non può agire impunemente. Ed è anche un messaggio chiaro per il governo di Baghdad, o meglio di quella parte che flirta e dà spazio all’Iran (e infatti a dimostrazione delle spaccature esistenti alla votazione sul ritiro delle truppe straniere dal paese, nel parlamento iracheno non hanno partecipato né i delegati sunniti né quelli curdi).

Passiamo alla seconda questione. Se l’eliminazione del capo delle forze speciali iraniane ha una sua razionalità e si incastra perfettamente come una tessera nel mosaico delle azioni contro l’Iran, rimane da chiarire quale sia il disegno strategico di Trump per il Medio Oriente. Che strategia militare voglia adottare? Quale visione delle relazioni internazionali sta alla base della scelta di settembre? Questioni non da poco, che non possono essere liquidate chiamando in causa l’erraticità del carattere di Trump.

Necessario è perciò mettere in fila gli interessi definiti vitali che gli Usa e in modo particolare questa amministrazione vogliono perseguire nel Medio Oriente. Vediamoli.

Nonostante la raggiunta indipendenza energetica, ma in continuità con la politica mediorientale inaugurata da Truman già alla fine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno come interesse centrale la stabilità della produzione, della circolazione e dei prezzi, in dollari, del petrolio, materia prima fondamentale per far girare l’economia del mondo. Il perseguimento di questo obiettivo porta con sé immediatamente l’impegno alla difesa del suo alleato arabo storico, il regno Saudita, uno dei maggiori produttori di petrolio e collocato per di più in una posizione strategica fondamentale.

L’altro caposaldo è lo strettissimo rapporto con Israele che Trump ha vieppiù rafforzato, si veda il piano di pace proposto nei giorni scorsi, che fa propri molti punti proposti da Israele, come non acconsentire al ritorno dei profughi palestinesi alle loro case.

Vi sono poi gli interessi classici di derivazione mercantile, legati alla difesa della libertà di commercio, della  salvaguardia della libertà dei mari, delle rotte e del libero passaggio degli stretti.

In ultimo, ma non per importanza, la lotta al terrorismo internazionale che dal quell’11 settembre non ha avuto paura di colpire il cuore dell’Impero e dei suoi alleati occidentali.

Se questi punti suonano come note usuali della politica estera americana, è necessario sottolineare la forte discontinuità certo con la politica estera di Obama, ma anche di Bush jr. In Trump infatti non c’è nessuna volontà di ridisegnare la mappa del Medio Oriente, di definire un nuovo ordine sia nella declinazione di esportazione della democrazia in quei paesi – concetto ripetuto subito dopo l’uccisione di Soleimani –, sia che si creda possibile  e si incoraggi una loro trasformazione dall’interno, come fece Obama con il sostegno alle “primavere arabe”, a partire dal celebre discorso all’Università del Cairo nel giugno del 2009. Con una differenza però: se gli “errori” di Bush jr. sono da attribuirsi ad uno stato di necessità, allo shock dell’attentato  alle Torri Gemelle, le scelte di Obama sono dovute ad un’impostazione ideologica opposta a quella di Trump, alla ricerca di un appeasement impossibile con regimi e nemici che tutto vogliono meno che la pace. Denominatore comune però di entrambe le presidenze è che i loro progetti per il Medio Oriente si sono rivelati fallimentari, velleitari ed estremamente costosi in termini politici, umani ed economici. Se Bush jr. ha impantanato gli Usa in “guerre senza fine”, le azioni di Obama hanno portato alla produzione di nuovi Stati falliti come la Siria e la Libia, indulgendo ai sogni di grandezza della Francia.

Comunque si vogliano giudicare le politiche dei suoi predecessori, la conclusione per Trump è che occorre mettere fine ai regime change sia in veste neocon che democratica, lezione rafforzata dal caso venezuelano. Quello che emerge è un disegno americano del Medio Oriente dai tratti negativi. Trump non fa altro che fissare di nuovo gli interessi in purezza degli Stati Uniti, al di là dei desideri, volontà e ideologie.

E da questa considerazione traccia una conseguente strategia militare, del massimo risultato con le minime perdite, ottenuto sfruttando appieno il “vantaggio competitivo” Usa della sua strabiliante forza militare che a sua volta riposa su un predominio economico, tecnologico e logistico senza pari nel mondo.

Secondo la tradizione anglosassone declinata in epoca postmoderna, tale visione isolazionista-imperiale si traduce in un controllo assoluto dei mari,  dell’aria, dello spazio e del cyberspace. Flotte che solcano i mari, aerei continuamente in volo, satelliti nello spazio, basi Usa dislocate in tutto il mondo, soldati all’estero in funzione prima di tutto di protezione di quegli interessi, ma loro  impiego sul terreno il minimo  indispensabile sostituiti da combattenti sul campo appartenenti a Stati alleati. Un uso della strategia quindi che richiede obiettivi politici limitati, e sul piano militare l’unione di una potenza di fuoco devastante con una tecnologia sempre all’avanguardia, trionfo della netwar.

Si tratta della strategia applicata in modo esemplare nella Prima guerra del Golfo nel 1991 e frutto della dottrina elaborata da Caspar Weinberger, il segretario alla Difesa nella presidenza Reagan, dopo che, il 23 ottobre 1983, 241 marines furono uccisi a Beirut in uno dei primi attentati suicidi. Rivediamo i celebri sei punti di tale dottrina. Primo, gli Stati Uniti non devono impiegare forze combattenti all’estero, “oltremare”, a meno che non siano in gioco interessi nazionali vitali. Secondo, se questa decisione dovesse essere presa, essa deve essere compiuta fino in fondo e con la “chiara intenzione di vincere” e quindi gli Stati Uniti devono essere disposti ad utilizzare tutte le risorse necessarie per raggiungere l’obiettivo. Terzo, se la forza va impiegata, devono essere definiti con chiarezza assoluta gli obiettivi politici e militari, perché secondo Clausewitz “nessuno comincia una guerra – o piuttosto nessuno dotato di senno dovrebbe farlo – senza avere ben chiaro in mente quali scopi vuole raggiungere e quali mezzi impiegare in rapporto a codesti fini”. Quarto, la relazione tra obiettivi e forze militari impiegate – la loro forza, composizione e disposizione – deve essere continuamente bilanciata e ricalibrata nel corso del conflitto. Quinto, prima di impiegare combattenti all’estero, i governi degli Stati Uniti si devono assicurare di avere il sostegno della popolazione e dei suoi rappresentanti cioè della maggioranza del Congresso. In  ultimo, l’uso della forza deve essere l’ultima risorsa.

Colin Powell, comandate delle truppe americane sotto George Bush, si rifece alla dottrina Weinberger nella Prima guerra del Golfo quando ordinò l’operazione Desert Storm che, iniziata il 17 gennaio 1991, finì dopo soli 40 giorni, il 24 febbraio. Bush completò l’opera ritirandosi dall’Iraq senza disfare le istituzioni di quel paese, senza lasciare soldati americani sul terreno, perché l’obiettivo era liberare il Kuwait, non defenestrare Saddam. Ma anche la prima parte della Seconda guerra contro l’Iraq, che va sotto il nome di Shock Wave, fu organizzata con la stessa logica. Il 20 marzo 2003 iniziarono i combattimenti e il 1° maggio 2003 Bush tenne il celebre discorso della “missione compiuta” sulla portaerei Abraham Lincoln.

In ultimo, il caso siriano è un’altra conferma della modalità di intervento inaugurata da Trump in una zona dove l’unico interesse per gli Usa è la guerra all’Isis. Predominio nell’aria, forza dal cielo, utilizzo di truppe locali sul terreno, impiego di un numero limitato e specializzato di soldati sul campo. Una volta raggiunto l’obiettivo, sconfitti i macellai dell’Isis, finisce il ricorso alla forza,  i militari  tornano a casa,  perché l’obiettivo politico stabilito è stato completato. Non è previsto nessun cambio di regime, nessuna ricerca di un nuovo leader, nessun disegno di instaurare una democrazia. Assad rimane, non è un problema americano, e nemmeno la creazione di un Kurdistan indipendente è un problema Usa. E addirittura se i russi vogliono restare sono fatti loro, anzi ben vengano, perché, più degli Stati Uniti, Mosca soffre il terrorismo islamista e quindi è interessata ad un controllo di polizia assoluto. E inoltre si impelagano in una situazione difficilissima, sono costretti ad investire sempre più soldi in quel paese e nelle loro forze armate, mentre la loro economia certo non va a gonfie vele e il possibile business della ricostruzione siriana è ancora lontano.

Le conseguenze. Gli Stati Uniti controllano mare, cielo, spazio e cyber-spazio dall’alto della loro potenza assoluta, in una declinazione postmoderna della talassocrazia inglese, disegnano la cornice del Medio Oriente circondando la regione, sigillando l’area. Sembra non abbiano bisogno, per citare Carl Schmitt, del nomos della terra!

Rimane tutto da vedere se questo tipo di strategia è capace di produrre qualche tipo di ordine, e se permetta di sganciarsi dal caos mondano, consentendo agli Stati Uniti di rompere solo saltuariamente e per il tempo strettamente necessario il loro nuovo isolamento. Fosse per Trump, il compito di stare sul terreno sarebbe demandato di volta in volta agli altri stati, alla Russia, all’Europa, agli altri paesi Nato, se ne hanno le possibilità e la capacità. Basterà?

Per quanto riguarda la reazione iraniana, il regime è costretto a muoversi tra l’arginare una crisi interna economico–sociale, con il rischio che si trasformi in crisi istituzionale e di regime, e la volontà di continuare a rincorrere quel predominio regionale a cui tanto aspira, senza sfidare frontalmente gli Stati Uniti, ma lasciando che siano le milizie clienti a cercare di portare avanti il compito di cacciare gli americani dall’Iraq e dal Medio Oriente. Strada impervia, che condurrà Teheran a spostare lo scontro dal piano della guerra a quello asimmetrico, dove è maestra.

E che farà l’Iraq? Se non vuole aumentare il clima di guerra civile, se non vuole ridursi come il Libano, dovrà muoversi su un filo di seta, vaso di coccio tra gli Stati Uniti, di cui ha bisogno per tenere a bada il terrorismo dell’Isis, una Turchia non proprio amica e l’espansionismo iraniano che può contare su validi alleati interni.