Convergenza di fattori o scenari convergenti? Cambiando l’ordine dei fattori, il risultato non cambia: in Europa, domina lo stato di eccezione. Lo stato di eccezione permanente, che di volta in volta si manifesta come quantitative easing o mutazioni genetiche delle alleanze politiche.

Cos’è, in fondo, lo stato di eccezione? È quel combinato disposto di molti elementi – economia, trasformazioni sociali, cataclismi politici eccetera – che non ammette soluzioni lineari di sorta. Un caos che diventa il vivere quotidiano e la permanente eccezione alla cosiddetta “normalità”, una chimera, nei fatti.



Un paio di decenni fa circolava la retorica del “Paese normale”, oggi tutto scivola tra effetti paradossali e smottamenti senza effetti rivoluzionari: forse è questa la “normalità” della decadenza in salsa postmoderna.

I fatti, innanzitutto. In Italia prende forma un governo Pd-M5s. La sinistra più in crisi d’Europa con il populismo nostrano. In Spagna, il socialista Pedro Sanchez apre a Podemos, altro faro del populismo iberico. In Germania, l’Est, riunificato sotto l’egida di Kohl, passa alla destra di AfD, a fronte di una Cdu che tiene, pur perdendo, facendo il paio con i socialdemocratici, in Sassonia, l’ultimo test elettorale.



La Cdu e, più in generale, il merkelismo, stanno diventando residuali, ancora in piedi, sì, ma privi di forza strategica e progettuale. I socialdemocratici ormai sono un nome della storia del movimento operaio tedesco e oltre il nome non vanno.

Cosa sta accadendo in Europa? Sta accadendo l’inevitabile: il nesso politica-economia, nella stagnazione permanente che oggi tocca anche la Germania, ha messo in luce solo lo stato di eccezione. In altre parole, stiamo vivendo una lunghissima fase che si ripete senza posa, uno “sciopero degli eventi” (Jean Baudrillard). L’Europa è uno stagno malmostoso, senza identità né progetto, eppure necessario. Fuori, i “barbari” populisti sono retoricamente estranei a questa Europa, ma incapaci di costruire una seria alternativa ad essa. Nel resto del mondo, soprattutto nel mondo asiatico, l’economia galoppa e le società, sospese fra tradizione e post-modernità, dimostrano solide virtù, a tutto beneficio del Pil.



Sullo scenario europeo, invece, l’unico soggetto è lo stato di eccezione. Schmitt docet: sovrano è chi decide sullo stato di eccezione.

E allora, illudendosi di essere i nuovi “sovrani”, in molti cercano di sfoggiare la grinta giusta, proprio per decidere sullo stato di eccezione: il “bene del Paese” (Italia); “la terza via” spagnola, né crisi di governo, né governo con Podemos, ma “programma comune su valori progressisti”; l’autunno della Cdu, il sonno della ragione della Spd, la furia iconoclasta della nuova società dell’Est, che sta pagando la crisi tedesca, per ora non ufficialmente dichiarata.

Mentre tutto questo si consuma, ieri come oggi, l’Ue non teme rivali, e a buon diritto, perché il teatro dello stato di eccezione non fa che puntellare la sua intrascendibilità assoluta. L’alleato impagabile dell’Ue si chiama “sovranismo” ed è un populismo non sovrano (sullo stato di eccezione).

Come sempre nella storia, il cane che abbaia alla luna sveglia i dormienti, sì, ma non sposta la luna.