La caduta del muro di Berlino ha dato luogo a un fenomeno poco noto e poco studiato da coloro che non hanno un approccio alla realtà della politica internazionale centrato sul ruolo della guerra economica. Si tratta del potere delle aziende. Iniziata alla fine della Seconda guerra mondiale, questa lenta evoluzione porta nel mondo post-Guerra fredda all’emergere di multinazionali con a volte più potere degli Stati. Certamente, il fenomeno non è del tutto nuovo: già nel XVII secolo, alcune aziende erano altrettanto forti, se non più forti, di alcuni regni. È il caso della Compagnia Olandese delle Indie Orientali e, soprattutto, della Compagnia delle Indie Orientali Inglese, veri e propri Stati nello Stato. Ciò che è radicalmente nuovo all’inizio di questo XXI secolo è l’ampiezza del fenomeno: mai prima d’ora le aziende erano state in grado di imporre le loro leggi e di plasmare il nostro mondo.



Nel 2014, le quattro più grandi multinazionali avevano ciascuna un fatturato superiore a 420 miliardi di dollari. In cima a questa classifica c’è la società americana della grande distribuzione Walmart, con 485 miliardi di dollari di fatturato, pari al doppio del Pil dell’Algeria o del Portogallo. Un’azienda come Apple incassa 40 miliardi di dollari di utili, pari a quattro volte il Pil del Mali. Walmart impiega tanti dipendenti (2,2 milioni) quanti sono gli abitanti del Qatar. La società di Cupertino (Apple) ha una capitalizzazione di borsa che sfiora il Pil di un Paese come l’Indonesia e supera di gran lunga quello della Svizzera o dell’Argentina, con i suoi 41 milioni di abitanti. Alcune multinazionali sono diventate veri e propri imperi: Goldman Sachs nel settore bancario, Glencore, Trafigura, Cargill nel commercio di materie prime e agricole prendono decisioni dai loro uffici di New York o Ginevra che toccano la vita di miliardi di esseri umani. Questi imperi economici impongono il loro business e la loro visione del mondo. Con una fortuna personale che va dai 79 ai 64 miliardi di dollari, Bill Gates, Carlos Slim, Warren Buffett e Amancio Ortega, gli uomini più ricchi del mondo, potrebbero permettersi di comprare la Tunisia e il Senegal. Nel settore digitale, i Ceo dei GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) disegnano il mondo di domani e minano la sovranità degli Stati con l’evasione e l’ottimizzazione fiscale. In linea di massima si può ipotizzare che le decisioni più importanti della storia dell’umanità potrebbero essere prese da un minuscolo gruppo di uomini d’affari.



Cosa possono fare i dirigenti delle nazioni di fronte ai nuovi profeti del digitale? Gli Stati non sono più soli a dominare la scena internazionale: la società e, soprattutto, le aziende giocano la loro parte. Così come alcuni miliardari che le dirigono e pretendono di imporre le loro visioni a tutto un Paese. Citiamo i fratelli Koch, una cui parte dell’immensa fortuna servì a paralizzare il funzionamento dello Stato federale americano nel 2013. Grazie a milioni di dollari spesi in lobbying, David e Charles Koch, due ultraconservatori, spinsero i parlamentari repubblicani a bloccare il funzionamento dei servizi pubblici rifiutando di votare il bilancio federale. Questo perché i fratelli Koch, la cui fortuna personale era stimata a 34 miliardi di dollari ciascuno, non apprezzavano l’Obamacare e volevano la sua abrogazione.



Quali scontri, quali lotte ci promette un mondo in cui il patrimonio dell’1% più ricco del pianeta supera quello del restante 99%? Perfino organismi internazionali come il FMI e l’OCSE, che difficilmente si possono definire di sinistra, si preoccupano e condannano queste allarmanti disparità. Non per morale, ma per efficacia economica: i loro studi recenti mostrano che queste disuguaglianze ostacolano la crescita mondiale. La teoria liberale del trickle-down, secondo cui la ricchezza di pochi contribuisce alla crescita di tutti, non funziona più. Peggio ancora, è un freno al benessere mondiale. L’OCSE stima che l’aumento delle disuguaglianze ha fatto perdere ai suoi membri il 4,7% di crescita. Se Hobbes fosse ancora tra noi, chi definirebbe come Leviatano, lo Stato sovraindebitato o la multinazionale che non sa cosa fare dei suoi profitti e promette benessere, felicità e persino immortalità ai suoi clienti? Insomma andiamo verso la privatizzazione del mondo a favore di potenze private – legali, criminali o grigie – che vassallizzano gli Stati e i popoli, in modo tanto più temibile in quanto il padrone non ha né volto né centro.

Ecco allora che alcuni Stati, per affrontare nuove sfide determinate dall’emergere di queste aziende globalizzate, hanno coniato il termine intelligence economica con lo scopo di comprendere i meccanismi che regolano i nuovi scenari politici ed economici.

L’apparizione, all’inizio degli anni 90, del concetto di intelligence economica segna il cambiamento che si verifica allora all’interno dell’azienda in materia di sicurezza: d’ora in poi, non si preoccupa solo di fabbricare il miglior prodotto o di offrire il miglior servizio ai suoi clienti, ma si difende anche contro i curiosi che si interessano troppo da vicino al suo know-how. In poche parole, l’azienda utilizza le tecniche base dell’intelligence: proteggere le sue informazioni sensibili e andare a cercare quelle dei concorrenti. La protezione e la ricerca di informazioni non sono più prerogative esclusive dello Stato, sono diventate anche una questione privata. Se l’azienda si trasforma in un’agenzia di intelligence – o pratica l’intelligence economica, per usare un’espressione politicamente corretta –, non è solo una conseguenza della caduta del muro di Berlino. È anche il risultato di un incrocio con un’altra rivoluzione, quella delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (NTIC), concomitante ai cambiamenti geopolitici del 1989. Questi due cambiamenti maggiori, politico e tecnico, portano a una radicalizzazione dei rapporti economici, perché l’azienda identifica un nuovo bisogno: proteggere il suo patrimonio informativo, e gli ex spioni, rimasti senza causa, si riciclano nelle aziende per soddisfarlo. Importano un know-how unico acquisito durante gli anni della Guerra fredda. Da qui l’apparizione di nuove armi economiche nella conquista dei mercati.

Ma torniamo al legame tra l’azienda e l’informazione. Prima dell’emergere dell’informatica, un prodotto o un servizio aveva un ciclo di vita abbastanza lungo. Alcuni prodotti (o servizi) potevano rimanere sul mercato per anni senza essere soppiantati da un prodotto (o servizio) più innovativo. L’azienda proteggeva il suo prodotto o servizio. Con le nuove tecnologie dell’informazione, la situazione cambia: il ciclo di vita di un prodotto può essere di appena pochi mesi tanto sono rapidi i progressi tecnologici. Questo significa che con le NTIC non è più il prodotto o il servizio che l’azienda deve difendere, ma l’informazione che permette a quel prodotto o servizio di essere sempre competitivo e innovativo sul mercato. In altre parole, il vero valore aggiunto dell’azienda risiede nel suo patrimonio informativo.

È quindi questo che va protetto dagli sguardi indiscreti. E chi meglio di uomini e donne che hanno lavorato negli apparati di sicurezza e intelligence, a Ovest come a Est, può assicurare questa missione? Già a partire dal 1997, più del 99% di coloro che lavoravano nelle aziende nel settore della intelligence erano ex membri della CIA, dell’FBI, della DST, della DGSE, dell’esercito. Tutti questi ex-agenti integrano l’azienda importando le tecniche e i metodi acquisiti nella loro vecchia professione. Da qui la radicalizzazione dei rapporti economici che si fa sentire a metà degli anni 90 e che si acutizza negli anni 2000. Anche nei campi più inattesi, come l’istruzione superiore. A tale riguardo ci sono alcuni esempi illuminanti, alcuni molto poco conosciuti al grande pubblico.

Vediamo di illustrare in dettaglio alcune di queste tecniche applicate nel mondo aziendale ma che sono in realtà mutuate dal mondo dei servizi di sicurezza.

Il benchmarking, tecnica perfettamente legale che consiste nell’osservare le buone pratiche della concorrenza per trarne ispirazione, può trasformarsi in un’arma pericolosa contro i competitori. Basta fare benchmarking offensivo. Esso consiste nello studiare la concorrente a sua insaputa, ad esempio, fingendosi un giornalista o un ricercatore che vuole scrivere un articolo sulle qualità del servizio R&D dell’azienda, oppure inviando uno studente in stage con l’unica missione di individuare le falle nella sicurezza. Nell’ospitalità, nei trasporti o nella grande distribuzione, l’aggressore può fingersi un cliente e disturbare le attività della concorrente. Per esempio, ed è accaduto, il falso cliente può causare ripetuti guasti agli ascensori o addirittura far scattare gli allarmi antincendio. Il vantaggio è doppio: copiare le buone idee e allo stesso tempo rovinare l’immagine della concorrente presso la clientela. Nel 1988, la rivista Fortune ha rivelato che la catena di hotel Marriott si dedicava a questo tipo di operazioni contro i suoi concorrenti.

Oltre alla contraffazione, che permette di guadagnare molti soldi vendendo copie di un grande marchio, esiste la contraffazione concorrenziale. Quest’ultima consiste nel fabbricare falsi non per riempire le casse, ma per danneggiare l’immagine del concorrente. L’obiettivo è ovviamente quello di produrre copie volutamente mal fatte per distruggere la reputazione del concorrente. Nel settore del lusso o del tessile (meno del 10% dei prodotti contraffatti), i danni possono essere limitati, anche se alcune tinture sono tossiche; ma nell’industria farmaceutica, dove il fatturato della contraffazione raggiunge i 75 miliardi di dollari, il peggio può accadere: le copie sabotate a volte causano la morte dei pazienti. È per questo che alcuni esperti in contraffazione sostengono la necessità di stabilire un crimine farmaceutico e di non limitarsi più a perseguire i contraffattori per violazione della proprietà intellettuale.

Nell’alimentazione, nei cosmetici, nei giocattoli, negli elettrodomestici, nei software, nei materiali e attrezzature di costruzione, nell’aeronautica e persino nel nucleare, la contraffazione può avere gravi ripercussioni sulla salute degli utenti. Oggi la contraffazione ha raggiunto un livello industriale. Da questo punto di vista non si possono non denunciare, come ha fatto più volte ad esempio Gratteri, le filiere criminali dove mafie, gruppi armati, terroristi e Stati lavorano in tutta complicità. Secondo l’Union des Fabricants (Unifab), la contraffazione costa ai paesi del G20 100 miliardi di dollari all’anno.

Il reclutamento concorrente, invece, consiste nel sollecitare uno o più dipendenti di un’azienda per offrirgli un contratto di lavoro. In un documento confidenziale del 1998, l’Istituto degli studi superiori di sicurezza interna francese (IHESI) si sottolineava che il reclutamento è uno strumento di intelligence e destabilizzazione. E questo rapporto notava che i più grandi cacciatori di teste erano americani. Un’operazione aggressiva di reclutamento può mirare a due obiettivi: il primo è attirare i dirigenti di un’azienda bersaglio per estorcere informazioni sui loro clienti o sui loro progetti di R&D; il secondo è reclutare i più performanti di loro per destabilizzare la concorrente. Generalmente, l’aggressore si organizza per scatenare l’operazione nel momento in cui l’azienda bersaglio si trova in una fase delicata: lancio di un nuovo prodotto, ridistribuzione della strategia, cambio di modello. È in questi periodi particolarmente tesi che i dirigenti diventano prede facili. Nel 1997, la società Borland International accusa Microsoft di averle sottratto una trentina di ingegneri. Nel 2000, la fabbrica Philips di Le Mans, che produce telefoni cellulari, è vittima di un attacco di reclutamento concorrente. Una ventina dei suoi dirigenti, in particolare del servizio R&D, lascia improvvisamente l’azienda; l’indagine di un’agenzia di intelligence economica rivela che sono stati tutti assunti da una società situata in Gran Bretagna, ma che possiede una fabbrica di cellulari in Cina. Gli autori di questa indagine parlano di “pratiche di reclutamento predatorie”. Un anno dopo, la fabbrica di Le Mans licenzia metà dei suoi dipendenti e il gigante dell’elettronica termina la sua avventura nei cellulari.

Niente ferma la guerra economica. Essa si nasconde ovunque, anche nella generosità umana. Sia arma che campo di battaglia, l’umanitario ha dato origine al concetto di intelligence umanitaria. Per uno Stato, l’umanitario è un fantastico vettore di influenza; per un’azienda, diciamolo senza falsa ingenuità, essa approfitta della disgrazia altrui per aumentare il suo fatturato ed eliminare nel contempo i concorrenti. Il settore umanitario infatti muove miliardi di dollari: bisogna pur acquistare il cibo per evitare le carestie, il materiale medico per curare i feriti, costruire strade per trasportarli agli ospedali, a volte persino ricostruire questi ospedali distrutti da uno tsunami o da un terremoto. Alcune ONG sono il braccio armato di questa battaglia. Cavalli di Troia delle multinazionali, esse si arrangiano per essere le prime sul teatro delle catastrofi, al fine di imporre il materiale dei loro sponsor. Per le aziende, il rischio finanziario è limitato poiché si tratta di mercati internazionali con pagamento garantito dalle istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale, o dalle organizzazioni regionali, come l’Unione Europea. Negli Stati Uniti, la situazione è ancora più chiara: l’Agenzia Americana per lo Sviluppo (USAID) annuncia che i beneficiari dei suoi finanziamenti sono in maggioranza aziende americane. La piccola parte del budget federale americano che assiste le nazioni in via di sviluppo serve direttamente i migliori interessi degli Stati Uniti. Le attività di USAID si traducono in benefici economici diretti in quasi tutti gli Stati dell’Unione.

Anche i britannici e gli scandinavi utilizzano l’umanitario come uno strumento di penetrazione dei mercati. In Francia, il dibattito fatica a emergere nelle grandi ONG tipo Médecins du Monde o Médecins sans Frontières, che rifiutano di collegare interesse nazionale e altruismo. Tuttavia, la politica dello struzzo non è la soluzione: potrebbe un giorno spingerle fuori dalla scena. Le ONG pilotate dai governi e/o dalle aziende contano di occupare tutto il terreno e sbarazzarsi definitivamente di quelle che credono ancora nel gesto totalmente gratuito. La stessa domanda si pone per le forze armate che, attraverso le Civil-Military Affairs (ACM), sono impegnate al fianco delle popolazioni per proteggerle e aiutarle a ricostruire i loro villaggi o città dopo un conflitto. Devono approfittare della situazione per favorire le aziende dei loro Paesi nella conquista dei mercati di ricostruzione? Oltre a non esserci nulla di scioccante nel voler partecipare, una volta tornata la pace,  alla competizione economica, l’intervento economico è anche un elemento fondamentale della risoluzione della crisi.

La globalizzazione ha reso la competizione economica più intensa e le aziende devono navigare in un ambiente regolamentare complesso e spesso in evoluzione. La cooperazione internazionale e le alleanze strategiche diventano essenziali per competere su scala globale. Le aziende devono essere agili e adattabili, capaci di anticipare le tendenze del mercato e di reagire rapidamente ai cambiamenti normativi e tecnologici.

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