Nell’autunno 2022 si giocheranno i destini dell’ordine mondiale neoliberale che ha conformato gli ordini politici, economici e culturali dal 1979 al 2016. Le elezioni di mid-term americane indicheranno se si salverà il tentativo di Joe Biden di rivitalizzare il rooseveltiano New Deal volendo far rinascere il “sogno americano” quale guida universale della “libertà”.
Nonostante l’irrilevanza geostrategica del Paese, anche le elezioni italiane indicheranno con quale profondità l’egemonia neoliberale verrà riconosciuta e rispettata in uno dei grandi Paesi fondatori di quel processo americano di integrazione europea, cioè di sovrapposizione di un ordine tecnocratico sovranazionale – impersonato, da ultimo, da Mario Draghi – a quello politico e sociale nazionale e locale.
Il Regno Unito avrà un nuovo leader politico conservatore e primo ministro che, in sostituzione del dimissionario Boris Johnson, indicherà la direzione che il Paese prenderà rispetto al continente europeo, nei rapporti bilaterali e in quelli con l’Unione Europea, in quelli con gli Stati Uniti e nelle relazioni globali, particolarmente con Russia e Cina.
Il XX Congresso nazionale del Partito comunista cinese, oltre a dover decidere se riconfermare la leadership del presidente Xi, indicherà le linee guida strategiche cinesi per gli anni a venire.
Su tutto ciò, resta incombente la guerra della Russia in Ucraina con tutti i rischi di tracimazione che il prolungamento della guerra e del coinvolgimento occidentale possono comportare.
Infine, i segnali macroeconomici delle principali economie del pianeta indicano un rallentamento che in alcuni casi è già una recessione, oltre ad una persistente inflazione che affievolisce gli effetti di contrasto delle politiche monetarie messe in atto dalle banche centrali.
Mentre il neoliberalismo era stato concepito come modello economico, dopo il 1991 – fine della Guerra fredda con l’autodissoluzione dell’Urss – si è involontariamente trasformato in ordine politico mondiale, dovendo affrontare sfide e complessità alle quali non era affatto preparato. La crisi del neoliberalismo è plasticamente apparsa nella prima decade del nuovo millennio manifestandosi in vari modi: a) la grave crisi domestica politico-elettorale americana del 2000 (che nascondeva la violenta frattura tra i “poteri forti”, l’apparato o “deep state”); b) lo spettacolare attacco terroristico dell’11 settembre 2001, che ha spinto gli Stati Uniti in una serie di guerre impossibili (Afghanistan, Iraq); c) nel 2008, il più grande crack economico e finanziario dalla Grande Depressione e l’elezione del primo presidente afro-americano della storia.
Nonostante gli sforzi che legano Clinton a Bush e ad Obama nel tentare di salvare l’ordine neoliberale, vacillano le tre grandi promesse riformiste del neoliberalismo post guerra: a) inquadrare la libertà dei mercati in un sistema di regole che governassero la proprietà, gli scambi, e la circolazione monetaria e del credito; b) applicare i princìpi di mercato non solo alle tradizionali attività mercatorie (lavoro e produzione; reddito e consumo), ma anche a tutte le altre attività umane; c) recuperare l’utopica promessa di “libertà personale” tipica del liberalismo tradizionale.
Il risultato cumulativo è una drammatica polarizzazione – economica, politica e sociale – sia interna agli Stati Uniti sia nelle relazioni globali, nella quale si scontrano differenti prospettive morali su come aspirare ad ottenere una migliore qualità della vita: a) un modello “neo-vittoriano” che celebra la diversità ontologica attraverso l’autonomia e l’indipendenza, la forza dei legami familiari tradizionali, e i comportamenti disciplinati sul lavoro, nel consumo e nella sessualità; b) un modello “cosmopolita”, egualitario e pluralistico, che nella libertà di mercato vede la realizzazione di sé e della propria identità libera da condizionamenti tradizionali, ereditati o prescritti da un ordine sociale.
Il trionfo dell’ordine neoliberale, dopo la fine e la rovina dell’ordine creato dal New Deal, fu possibile proprio grazie ad una collaborazione “dietro le quinte” tra queste due prospettive morali. Oggi questa collaborazione non appare possibile, perché la forza ideologica del neoliberalismo si è esaurita, lasciando dopo di sé le rovine degli Stati nazionali, con governi deboli e burocrazie impreparate. Al consenso si sostituisce il conflitto, come avvenne in altre epoche (1970s; 2010s) quando un ordine politico regnante si disfece e un nuovo ordine faticava ad emergere.
Per capire le ragioni di fondo che sottendono le pericolose e macabre rappresentazioni odierne – in questo tempo di trapasso dall’ordine neoliberale che fu ad un altro ancora da definire – cerchiamo di ripercorrere le tappe di questo processo di ascesa e declino di un ordine, particolarmente nel quadro degli Stati Uniti d’America. La “nazione indispensabile” che non conviene a nessuno, amici o nemici, che imploda. Un esercizio che, si spera, permetterà ai lettori di discernere con maggiore consapevolezza il cammino da seguire.
La relazione teleologica tra l’ordine (neo)liberale e la democrazia
Si analizza la relazione teleologica tra l’ordine (neo)liberale e la democrazia, cioè il mondo economico aperto perché protetto dalla democrazia intesa come antidoto funzionale per evitare le interferenze e le rivendicazioni redistributive e sociali.
In questo senso, gli Stati Uniti d’America, sin dalla loro creazione, sono l’epiteto (neo)liberale della depoliticizzazione dell’economia, nonché dell’esaltazione estremizzata di un’arcaica libertà personale scevra da ogni legame comunitario o da strutture sociali. Una cultura sviluppatasi sul “calcolo oggettivante” del pensiero razionale e scientifico che, non avendo integrato il pensiero lungo dell’umanesimo, non ha potuto istituzionalizzarlo in una civilizzazione del bene comune fondata sui valori di dignità ed eguaglianza. Un modello di eccezionalismo strutturale nato premoderno, che non ha vissuto le fasi ristrutturanti della modernità, ma si è metamorfosato in una post-modernità nella quale il biopotere tecno-finanziario ne ingloba e controlla le strutture, le menti e la vita.
Ciò che sta oggi avvenendo nel Nuovo Mondo ha un effetto catalizzante su scala planetaria: finisce un mondo che era iniziato con la rivoluzione industriale, causa e motivo di quella modernità umanizzante che vendicò l’angosciosa esistenza umana attraverso la rivendicazione individuale e collettiva di soggettività strutturatasi nell’era delle democrazie borghesi, con i suoi diritti, le sue costituzioni e i suoi parlamenti.
Nell’America strutturalmente premoderna, la relazione teleologica tra l’ordine (neo)liberale e la democrazia era la piattaforma di riequilibrio tra i tre pilastri della modernità: il capitalismo, la scienza e il cristianesimo. (cfr. Giorgio Agamben, Quando la casa brucia, 2020).
Nelle prime due fasi del capitalismo – la scarsità e l’abbondanza – la relazione teleologica permise di raggiungere progressivamente una sorta di pacifica, articolata convivenza, se non una vera e propria collaborazione in nome del comune interesse. E ciò ha funzionato nonostante le prime due “rotture concettuali” – due o tre guerre mondiali e i totalitarismi tirannici o democratici – che hanno accompagnato l’era della relazione teleologica.
La prima rottura concettuale del rapporto teleologico si manifestò nella crisi dell’ordine liberale nel 1914-18, ma trent’anni dopo il neoliberalismo riaccese la fiamma della speranza nel superamento dell’ineguaglianza sociale, politica ed economica. Un fix neoliberale pensato tra gli anni 20 e 40: “l’illusione rooseveltiana” dei Gloriosi Trent’Anni (1945-1973).
La seconda rottura concettuale del rapporto teleologico è coincisa con la crisi interna al neoliberalismo (1973-), nella quale si è consumata una feroce vendetta contro le rivendicazioni della pluralità mondiale di giustizia redistributiva, eguaglianza e sviluppo. L’ordine neoliberale si è metamorfosato in sistema capitalistico globale strutturato, ma strutturante di disuguaglianze crescenti e del progressivo logoramento dei diritti sociali, politici ed economici della classe media, ma anche di quella popolare. Il capitalismo ha sussunto le ideologie, mentre la gente ha accettato le misure dispotiche e le costrizioni inaudite cui è stata sottoposta senza alcuna garanzia, perché ha interiorizzato la logica capitalistica e ha quindi largamente rinunciato a rovesciare il capitalismo.
È con la terza guerra mondiale che i “mostri” liberati del capitalismo – mutatosi in capitalismo tecno-finanziario – stanno travolgendo e superando sia il pensiero neoliberale sia quello democratico, sia i conservatori sia i progressisti, lasciandoci una società priva di speranza e in preda alla paura.
Un’ultima rottura concettuale del rapporto teleologico neoliberale – la più grave perché planetaria – si è manifestata con il riequilibrio geopolitico del post-colonialismo reazionario, prima, e, dal 2008, con la nuova scienza del governo – la trasformazione del potere e della politica rispettivamente in biopotere e biopolitica – preludio della società dell’obbedienza.
Il capitalismo tecno-bio-finanziario
La conseguenza in America e nell’Occidente è che il capitalismo e la scienza dominano incontrastati, imponendo una razionalità totalizzante, che si manifesta in uno stato di eccezione crescente. Il capitalismo liberale e democratico tende sempre di più verso quello illiberale e autoritario, relativizzando il rapporto teleologico con la democrazia.
Tant’è che dal 2019 il forum mondiale del capitalismo tecno-bio-finanziario – il World Economic Forum di Davos – è in alleanza strutturale con le Nazioni Unite dove, in forza del meccanismo di partenariato pubblico-privato, un manipolo di miliardari filantropi si sono sovrapposti ai governi, dettando la governance e gli obiettivi del resettaggio planetario. Mentre da Davos magnanimamente ci informano che le “persone saranno al centro”, i commons planetari sono sussunti nel filantrocapitalismo e sono gestiti dalle corporations: salute, ambiente, educazione, agricoltura, abitare, lavorare.
In risposta alle derive di questo XXI secolo, la Chiesa universale ha lanciato l’esortazione più forte e pregnante: “Senza i movimenti popolari – senza la partecipazione sociale, politica ed economica in modalità tali che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune – la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino” (Papa Francesco, Lettera enciclica Fratelli tutti, 169).
Dell’unitarietà del mondo, interdipendente, strutturalmente omogeneo, e funzionalmente eterogeneo, è convinto Henry Kissinger che, in una prospettiva realista e neoliberale, avverte l’urgenza di cambiamento imprescindibile per l’America di oggi per poter continuare ad essere un’America migliore domani: “A meno che si trovi una qualche base di cooperazione, il rischio è che il mondo scivoli in una catastrofe comparabile alla Prima guerra mondiale”.
Permettere che la guerra sia ancora il surplus per la governance imperiale americana sarebbe una catastrofe, per tutti.
(1 – continua)
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