L’accordo tra al-Sarraj, premier del governo nazionale libico con sede a Tripoli, e Aguila Saleh, presidente del Parlamento di Tobruk, rappresenta sulla carta la possibilità di porre fine alla guerra civile in Libia. Infatti, potrebbe rendere effettiva quella condivisione di poteri tra Tripolitania e Cirenaica maldestramente perseguita dall’Onu che, dopo aver riconosciuto il governo di Tobruk e non quello contrapposto di Tripoli, ha invertito le sue posizioni, ma ha mantenuto il riconoscimento dell’Assemblea parlamentare di Tobruk. I dubbi sulle reali e permanenti conseguenze di questo accordo derivano dalla situazione estremamente frastagliata sul campo, come illustrato nell’articolo di Giuseppe Gagliano.
Tuttavia, dietro questo accordo si può intravvedere un possibile riallineamento tra le potenze locali coinvolte in Libia, essenzialmente tra Egitto e Turchia, che si contrappongono anche nella questione dello sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi nel Mediterraneo orientale. Non è da escludere che al-Sisi abbia concluso, molto pragmaticamente, che la presenza turca in Libia sia ormai ineliminabile e sia conveniente raggiungere un accordo di cogestione o divisione del Paese, o almeno delle aree più gestibili. Il che potrebbe portare a una soluzione condivisa anche nel Mediterraneo, con il possibile accordo di Israele da un lato e della Francia dall’altro. Come rileva Michela Mercuri nella sua intervista, una sistemazione che soddisferebbe gli attori dietro le quinte, Russia, Stati Uniti ed Eau, ma che sottolineerebbe l’assenza dell’Italia e la necessità, di certo non nuova, per la nostra Eni di difendere da sola la sua posizione nell’area.
L’interesse dell’Italia per la Libia non è limitato al petrolio, perché dalle coste libiche partono considerevoli flussi di migranti che, grazie alla “solidarietà” europea, rimangono in gran parte a carico del nostro Paese. A questo proposito, il nostro governo dovrebbe porre molta attenzione a quanto sta avvenendo nel Mali e alle conseguenze del colpo di Stato militare. Il governo Conte aveva recentemente accettato l’invito francese a mandare nostri soldati per affiancare le operazioni contro i jihadisti che affliggono da anni le regioni settentrionali del Mali. Un intervento di per sé al limite del simbolico, 200 militari, visto che nel Paese africano sono stanziati 5.500 soldati francesi e 13mila sotto l’egida dell’Onu.
Il colpo di Stato rende ora difficile l’invio dei nostri soldati, ma ciò che sta succedendo nel Mali può anche influenzare i flussi di migranti, argomento “caldo” per l’Italia. Per il momento, il nostro governo sembra schierato con le posizioni dell’Ue che richiede il ritiro dei militari e il rilascio dei membri del governo, cioè il ripristino della situazione precedente. Il punto è che la sollevazione dei militari è stata preceduta da vaste manifestazioni popolari contro il governo, per la diffusa corruzione, le condizioni disastrose dell’economia e l’incapacità di risolvere positivamente la lotta contro i jihadisti e contro i separatisti tuareg del nord. Un semplice ritorno alla situazione quo ante non pare essere una soluzione realistica.