You are fired! Potremmo cominciare così, con la frase che a Trump piaceva tanto pronunciare nella sua stagione del reality The Apprentice, la nostra riflessione sulla transizione dall’era del twittatore in capo a quella del saggio pastore di una nazione che deve ricostruire se stessa dalle fondamenta. Questo passaggio non sarà indolore: sebbene gli elettori abbiano votato prevalentemente per Biden, lo spettro del trumpismo è un fenomeno che non solo non scompare, ma promette di tenerci compagnia anche nel prossimo futuro.



Quali scenari si prospettano dunque per la Casa Bianca di Biden? Non si può escludere anzitutto che, se il tycoon malgrado tutto si intestardisse a voler diventare una sorta di capo dell’opposizione, con i suoi 88 milioni di follower su Twitter, Biden e i Democratici avrebbero il loro bel filo da torcere.

In ogni caso, se la maggioranza repubblicana in Senato dovesse effettivamente concretizzarsi dopo la duplice sfida di dicembre in Georgia, Biden sarebbe costretto a pesanti compromessi con il leader del partito avversario al Senato, il trumpiano Mitch McConnell, sia per far passare le sue nomine governative soggette a ratifica senatoriale, sia nell’attuazione del suo programma elettorale.



Si chiama, tecnicamente, governo diviso, ed è uno scenario perfettamente previsto dai Padri fondatori degli Usa, che la consideravano una condizione ideale per il governo del paese. Sarà così anche per Biden? L’unica cosa che possiamo dire è che l’attuazione del suo programma sarà soggetta presumibilmente a un pesante ridimensionamento, specialmente nei capitoli (sanità, Green New Deal) più invisi ai repubblicani doc.

Laddove Biden avrà più libertà di manovra è, come sempre, in politica estera. E qui bisogna dire che non tutta l’eredità di Trump è da cestinare. Biden avrà anzi il vantaggio di proseguire nel processo di pacificazione tra Israele e mondo arabo avviato dal team Trump e concretizzatosi con i cosiddetti “accordi di Abramo”, che hanno condotto alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra lo Stato ebraico ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Sudan. Un ritocco al “piano del secolo” sulla questione palestinese elaborato dal genero di Trump Jared Kushner sarà invece indispensabile, visto il palese sbilanciamento in favore delle ragioni di Israele e la totale indisponibilità degli interlocutori palestinesi a prenderlo in considerazione.



Un altro frutto positivo del quadriennio trumpiano è l’allacciamento dei rapporti con il regime nordcoreano, seguito a un anno in cui a molti è parso di essere sull’orlo di una nuova guerra nucleare. Il depotenziamento della minaccia nucleare e soprattutto missilistica di Pyongyang è un merito che va interamente ascritto ad un’inusuale love story tra il dittatore e l’istrionico presidente che è stata celebrata anche con due vertici spettacolari, ma infruttuosi quanto a soluzioni concrete del dilemma nucleare nordcoreano. Biden e i suoi consiglieri potranno quindi inserirsi in un processo già avviato e troveranno tutti i canali già aperti per condurre la loro diplomazia.

Chi ha motivo di gioire per l’uscita di scena di Trump è naturalmente l’Europa. Mai, in settant’anni di atlantismo, si era giunti ad un punto così basso nelle relazioni tra le due sponde dell’oceano. Il pregiudizio ideologico di Trump verso le entità multilaterali, sommato a questioni come i dazi, la web tax e il dossier Boeing-Airbus, avevano contribuito a disgregare la comunità atlantica al punto di spingere molti a evocare una sorta di finis Occidentis. Biden dovrà fare sfoggio di tutto il suo talento diplomatico e moltiplicare i fori di confronto tra Europa e Usa per disinnescare i veleni generati dall’affermazione di Macron secondo cui la Nato è “morta cerebralmente” o dal brusco ritiro di una parte del contingente Usa schierato in Germania da parte di Trump, parole e azioni senza precedenti che rischiavano di chiudere per sempre la stagione dell’atlantismo.

Veniamo infine alla domanda da un milione di dollari: proseguirà o no lo scontro con la Cina? Anche se Biden riporterà al più presto il confronto sui binari di un rapporto meno teso riducendo il numero di incidenti diplomatici tra gli Usa e il Dragone, è convinzione di molti analisti che il tempo della resa dei conti con la Cina non è più rinviabile. L’idea, d’altronde, precede i tempi di Trump e vi sono mille indizi per pensare che caratterizzerà anche gli anni di Biden. Cambieranno i toni, certamente, ma certi punti di attrito attribuiti alla Cina come la violazione di massa dei diritti umani, il soffocamento delle libertà di Hong Kong e la pressione sempre più minacciosa su Taiwan e nel Mar Cinese Meridionale continueranno a rendere incandescenti le linee telefoniche tra Pechino e Washington. Bisognerà vedere, naturalmente, se Biden e i suoi generali porranno la stessa enfasi sul cosiddetto Indo-Pacifico inteso come perimetro di alleanze in funzione anti-cinese, o se prevarrà una linea più incline al perseguimento di uno status quo accettabile.

E Huawei? Che ne sarà di quella guerra fredda tecnologica che ha visto gli Usa di Trump mirare diritto all’obiettivo di mettere fuori gioco un colosso tecnologico dai legami sin troppo stretti con l’Esercito di Liberazione Popolare? Il prezzo di una normalizzazione dei rapporti tra Usa e Cina chiesto da Pechino potrebbe essere proprio la fine della campagna matta e disperatissima dell’America contro il colosso di Shenzhen, lasciato libero di competere nella grande gara delle reti mobili di quinta generazione nel mondo. A questo prezzo si aggiungerebbe probabilmente la liberazione della figlia del fondatore di Huawei ed ex Cfo di Huawei, Meng Wanzhou, detenuta in Canada su mandato della giustizia americana.

Una cosa è certa: con l’elezione di Biden, la politica internazionale tornerà a funzionare più come un orologio che come un furioso videogame animato da un personaggio imprevedibile.