Le polemiche sul memorandum firmato dal governo italiano con la Cina evidenziano le difficoltà insite nelle trattative con Pechino, con la conseguente necessità di una particolare attenzione su quanto si concorda. L’assetto statalista di una Cina tuttora comunista fa sì che ogni trattativa economica porti con sé una forte valenza politica. Detto questo, la sensazione è che non tutte le critiche derivino da un’approfondita analisi della sostanza dell’accordo, ma alcune siano strumentali alle contrapposizioni della politica interna italiana.



La principale accusa rivolta al governo è di aver ulteriormente danneggiato, con l’adesione alla Belt and Road Initiative, i già non facili rapporti con l’Ue e gli Usa. A Washington l’hanno presa male, vista l’attuale diatriba con Pechino sui dazi, una diatriba che però ricorda due fidanzati che litigano aspramente, ma attenti a non causare una rottura definitiva disastrosa per entrambi. Da qui, la costante preoccupazione per l’andamento dell’economia cinese, le cui contrazioni mettono in crisi l’economia americana, e non solo.



Diverso appare l’atteggiamento di Washington verso l’Europa, simile a quello di un padrone di casa verso un inquilino moroso, come dimostrano le richieste di partecipazione alle spese, per esempio della Nato. Passando poi ai rapporti di Bruxelles con l’Italia, la somiglianza è con un padrone di casa insofferente di un ospite che pretende non solo di decidere il colore dell’androne, ma perfino di partecipare alla gestione della casa.

Al governo si è rimproverato il grave errore di aver stretto l’accordo con Pechino alle spalle degli Stati Uniti e di non aver aspettato una decisione comune della Ue. La visita di Xi Jinping non è stata di certo imprevista, così come prevedibile era l’interesse dell’Italia per la nuova Via della Seta, ed è difficile credere che a Washington non se ne siano accorti e non siano intervenuti di conseguenza. Si continua poi a sottolineare che l’Italia è l’unico Paese del G7 ad aver firmato un simile accordo, ma anche qui, non sembra che questo raduno di ministri dell’economia abbia il potere di condizionare la politica estera degli Stati membri.



La Belt and Road Initiative è stata ufficializzata nel 2013, senza che la Ue trovasse il tempo di concordare un approccio unitario a questo enorme ed invasivo progetto. Nel frattempo, 11 membri dell’Ue hanno tranquillamente aderito all’iniziativa, ma, si dice, l’Italia è un “grande” Paese e questo fa la differenza. Una importanza che si manifesta imperiosa solo quando dobbiamo aderire alle richieste degli altri, perché l’Italia ridiventa immediatamente marginale quando è Roma a chiedere qualcosa. I Paesi che hanno aderito alla proposta cinese non sono, almeno in parte, così convinti di aver fatto un affare e qui si torna alla necessità di approfondire gli aspetti di sostanza dell’accordo. Rimane sorprendente, tuttavia, questa differenziazione tra un’Italia troppo importante per aderire alla Via della Seta cinese e quegli 11 Paesi dell’Europa Orientale e della Penisola Balcanica che possono invece aderirvi, come dire “per quel che contano…”

Si è data, inoltre, poca attenzione al cosiddetto “Gruppo 16 +1”, che comprende undici membri dell’Ue più cinque Stati balcanici, possibili candidati Ue, che dal 2012 si riuniscono annualmente con la Cina per “intensificare ed espandere la cooperazione negli investimenti nei trasporti, finanza, scienza, educazione e cultura”. La Cina ha identificato in particolare tre aree prioritarie: infrastrutture, alta tecnologia e tecnologie “verdi”. L’iniziativa potrebbe quanto prima estendersi anche alla Grecia, il cui principale porto, il Pireo, è già gestito dalla Cina, aumentando le preoccupazioni che il memorandum firmato con Roma possa portare a un ampliamento della rete dei porti gestiti, o comunque utilizzati, da Pechino. Sarebbe bene però ricordare che la cessione del Pireo ai cinesi è avvenuta durante l’intervento Ue nella crisi greca e che i cinesi operano massicciamente in numerosi porti europei, mediterranei e atlantici, compreso quello di Rotterdam, il più importante in Europa.

A chi faceva presente che la Germania ha un interscambio con la Cina di 200 miliardi di dollari – almeno quattro volte quello italiano – si è risposto che il problema non è negli scambi economici, ma nel coinvolgimento politico. Ora, non credo che un simile interscambio con un Paese in cui lo Stato è tutto possa prescindere da interferenze politiche e da accordi, magare taciti, di governo. E a proposito di porti, val la pena di ricordare che Duisburg, grande porto sul Reno, è già ora il maggiore punto terminale della Via della Seta, dove arriva l’80% del traffico ferroviario dalla Cina all’Europa. L’importanza di questo terminale per la Cina, e la Germania, è ben espressa in una frase del sindaco di Duisburg riportata a suo tempo dal Guardian: “Siamo la città cinese della Germania”.

E veniamo alla Francia. La visita di Jinping ha portato alla conclusione di contratti per circa 40 miliardi di euro – contro i 2/3 degli accordi con l’Italia – di cui 30 per la vendita di aerei della Airbus. Immediata la reazione di Trump, che ha minacciato l’applicazione di nuovi dazi a prodotti europei per 11 miliardi di dollari. Il motivo ufficiale è la ripresa di una vecchia disputa su aiuti di Stato a Airbus, che danneggerebbero i produttori americani di aerei, ma la tempistica è quantomeno sospetta.

L’elenco dei prodotti pare che comprenda anche il nostro Prosecco e il pecorino e sembra ripetersi quanto avvenuto con le sanzioni contro la Russia: a noi è stata impedita l’esportazione di pericolosi “materiali strategici” come gli ortofrutticoli; alla Germania è stata consentito il raddoppio del Nord Stream, che importa un prodotto notoriamente irrilevante come il gas russo. In nome dell’unità europea.