L’Australia ha annunciato il 15 settembre la rottura del contratto che dal 2016 la legava al gruppo industriale francese Naval Group per l’acquisto di dodici sottomarini diesel-elettrici. Ora si è rivolta alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti per acquisire otto sottomarini a propulsione nucleare, formando una partnership strategica con queste due nazioni chiamate Aukus (Australia, Regno Unito, Stati Uniti).



In un recente articolo il periodico francese Les Echos ha risollevato il problema sotto il profilo strettamente finanziario. Dobbiamo però chiederci quali siano le ragioni sia storiche che geopolitiche che hanno spinto l’Australia a fare questa scelta. E per rispondere a questa domanda ci siamo rivolti ad alcuni studiosi e analisti francesi la cui riflessione credo possa essere sintetizzata bene in questo modo.



L’Australia ha cercato di giustificarsi spiegando che il contesto strategico nella regione indo-pacifica era cambiato e che aveva dovuto modificare i suoi piani di difesa per il bene della sua sicurezza nazionale. A causa della crescente aggressività della Cina, essa era stata in una certa misura costretta a evolvere la sua dottrina strategica, al punto da preferire i sommergibili a propulsione nucleare rispetto a quelli convenzionali.

Queste argomentazioni, come vedremo, sono ben lungi dall’essere del tutto convincenti. È sorprendente che l’Australia abbia scelto di infliggere alla Francia un simile “colpo alla schiena”, come ha detto il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian. Anche se solo in termini finanziari, il suo storno costerà caro all’Australia, tra costi già sostenuti, indennità per inadempimento contrattuale e costo molto più alto dei sottomarini americani.



Da un punto di vista politico, la scelta non solo attira l’ira della Francia, ma c’è anche la diffidenza dell’Unione Europea nei confronti di un potenziale partner ormai considerato inaffidabile. Ciò mette in discussione la firma di un accordo di libero scambio tra l’Ue e Canberra, mentre i vicini asiatici dell’Australia, in particolare Indonesia e Malesia, sono preoccupati per i suoi progetti strategici, che potrebbero – è il loro timore – rilanciare una corsa agli armamenti nucleari nella regione.

Per quanto riguarda la forma, che svolge un ruolo non trascurabile nelle relazioni diplomatiche, non possiamo non sorprenderci che l’Australia, informando la Francia della sua decisione solo all’ultimo minuto mentre si preparava da diciotto mesi, abbia scelto di infliggere un tale affronto al suo partner. Saremmo meno sorpresi sapendo che in due occasioni Canberra ha cercato di ottenere la protezione degli Stati Uniti, aggirando il suo alleato britannico.

Va anche notato che Scott Morrison ha già assunto posizioni imprevedibili: il 22 agosto 2018, quando era ministro delle Finanze, ha pubblicamente assicurato al suo primo ministro Malcolm Turnbull la sua totale lealtà, prima di pugnalarlo alle spalle due giorni più tardi, prendendo il suo posto. Quando il 31 ottobre il presidente Macron ha dichiarato di sapere che Morrison gli aveva mentito, la finta indignazione dei circoli politici australiani ha messo in dubbio la natura poco diplomatica della dichiarazione più che la sua veridicità, rapidamente confermata da Turnbull. Sappiamo anche che Scott Morrison, oltre alle libertà che si prende con i fatti, è capace di capovolgimenti spettacolari quando il suo interesse politico lo richiede.

In sostanza, è chiaro che questa decisione segna un ritorno in Australia, se non ai suoi vecchi demoni, almeno ai suoi tradizionali signori anglosassoni, senza la cui protezione non può sentirsi al sicuro. Le tensioni generate dall’aggressiva politica estera cinese e il nervosismo di un’Australia che si sente minacciata significano che il Paese preferisce affidarsi a soluzioni comprovate, per quanto imperfette possano essere, piuttosto che correre i pochi rischi inerenti alle iniziative originali.

L’ex primo ministro Turnbull, che ha firmato il contratto con Naval Group nel 2016, è convinto che il suo successore abbia deliberatamente ingannato le autorità francesi. Morrison ha detto di aver capito che la Francia è delusa – per non dire altro -, ma che l’Australia, come ogni nazione sovrana, deve prendere le decisioni che la sua sicurezza richiede. Se questo ragionamento ha una sua legittimità, resta il fatto che, in effetti, serve soprattutto come pretesto per giustificare un tropismo di cui questa non è la prima manifestazione. Si potrebbe definire “post coloniale”, in quanto legato alla mentalità deferente nata dalla condizione politica, militare e culturale dell’Australia quando era sotto il controllo della Gran Bretagna.

L’Australia è formalmente indipendente solo dal 1986 e si potrebbe aggiungere che, fintanto che avrà il sovrano britannico come capo di Stato, come attualmente, non avrà raggiunto la piena indipendenza. Per tutto il XIX secolo, il Paese è stato un vasto insieme di colonie tutte dipendenti dalla Gran Bretagna: il termine “Australia” aveva solo un significato geografico, non politico. La federazione di queste colonie nel 1901, che diede vita al Commonwealth d’Australia, non cambiò radicalmente questo rapporto di subordinazione. Gli australiani erano sudditi britannici (fu solo nel 1948 che fu creato il concetto legale di cittadinanza australiana) e, infatti, si sentivano fondamentalmente britannici, membri, come canadesi o neozelandesi, di una stessa grande famiglia che li rendeva orgogliosi. Quando si parlava di “Paese” (“casa”), si parlava di Gran Bretagna.

Questo fortissimo senso di identità li metteva in contrasto con la regione indo-pacifica in cui si trova il continente australiano: l’Asia era percepita come totalmente estranea ai valori e alla cultura di cui gli australiani erano portatori. A partire dall’Ottocento era considerato solo come un insieme di opportunità economiche o come fonte di pericoli per gli interessi vitali del Paese.

Le colonie australiane non erano in grado di garantire la propria sicurezza senza un aiuto esterno, aiuto che poteva venire solo dalla Gran Bretagna, la cui marina governava l’alto mare. Il Giappone, infatti, sembrava un avversario formidabile. Vincitore della Cina (1894-1895) e poi della Russia (1904-1905), nell’immaginario australiano il Sol Levante era come un orco. Nonostante si sia schierato con gli alleati durante la Prima guerra mondiale, la sua differenza etnica non ha mancato di preoccupare un’Australia, ossessionata dal “pericolo giallo”, determinata a rimanere un paese “bianco” e a respingere gli immigrati di colore. Abbiamo visto, alla fine della guerra, prendere forma la trappola strategica da cui il Paese avrebbe avuto maggiori difficoltà a uscire, che consisteva nello scambiare la propria sovranità di fatto con una protezione esterna la cui affidabilità non era garantita: il suo sovrano, la Gran Bretagna, perseguiva prioritariamente i propri interessi, che non coincidevano necessariamente con quelli dell’Australia (firmò, ad esempio, un trattato di alleanza con Tokyo nel 1902).

Nei decenni successivi, quando il Giappone è diventato sempre più aggressivo, la Gran Bretagna ha risposto alle preoccupazioni australiane con parole rassicuranti, ma fuorvianti. Voleva, infatti, che contribuisse allo sforzo bellico che avrebbe dovuto fornire in Europa, il che implicava che il suo “dominio” non si sarebbe concentrato troppo sul Pacifico.

Entro la fine degli anni Trenta, l’Impero britannico iniziò a perdere la sua influenza a vantaggio degli Stati Uniti. L’Australia si è quindi rivolta a questa nuova potenza emergente. C’era una vena anti-americana nell’opinione pubblica australiana che derivava dal fatto che gli Stati Uniti si erano emancipati con la forza dal dominio britannico, mentre l’Australia era sempre rimasta fedele alla sua madrepatria, ma anche una certa gelosia nei confronti di un paese anglofono molto più popolato e più influente. Questi sentimenti anti-americani non sono del tutto scomparsi in questa occasione: erano semplicemente muti di fronte alla necessità dell’Australia di rimanere in buoni rapporti con il protettore di cui aveva bisogno.

Già nel 1907, il primo ministro australiano Alfred Deakin invitò le autorità americane a porre uno scalo australiano nel programma della loro “Great White Fleet”, una serie di navi da guerra che avrebbero sfoggiato la potenza degli Stati Uniti agli occhi dell’Asia. Questa iniziativa, presa senza il via libera del governo britannico, è stata percepita a Londra come un atto di slealtà. Come oggi, l’Australia dà la priorità alla sua sicurezza nazionale, a rischio di offendere il suo sponsor tradizionale.

Nel dicembre 1940, quando il Giappone aveva appena concluso un’alleanza con la Germania nazista e stava muovendo guerra alla Cina, l’Australia capì che presto sarebbe stata minacciata e che la protezione offerta dalla Gran Bretagna, assorbita dal conflitto in Europa, era molto incerta. Il primo ministro John Curtin aveva quindi rivolto un disperato appello agli Stati Uniti, ignorando, come lui stesso ha affermato con grande dispiacere di Winston Churchill, i suoi tradizionali legami con la madrepatria. Se, molto più tardi, gli Stati Uniti hanno finito per rispondere favorevolmente a questa chiamata, è stato più per l’aggressione giapponese contro Pearl Harbour che per la preoccupazione di aiutare un’Australia con cui avevano pochi legami.

La scarsa considerazione che avevano per il loro alleato si manifestò nel fatto che nessun ufficiale australiano fu inizialmente invitato ad assistere alla resa del Giappone nel 1945 e l’Australia dovette insistere affinché il suo comandante in capo, il generale Thomas Blamey, firmasse l’atto di capitolazione. Il trattato di pace risultante non ha tenuto conto delle richieste australiane. Nonostante questi insulti, l’Australia era convinta che la sua salvezza risiedesse in un’alleanza militare con gli Stati Uniti. Finì per convincerli a firmare il Trattato di Anzus nel 1951, una triplice alleanza tra partner molto diseguali che, in realtà, non impegnava molto Washington. Questo trattato, ancora in vigore, è stato invocato una sola volta, quando gli Stati Uniti hanno deciso di invadere l’Iraq nel 2003 (anche se in linea di principio riguarda solo la regione del Pacifico).

Fu così costruita quella che oggi viene chiamata “Anglosfera”, la cui configurazione ha subìto alcune modifiche, in particolare quando la Nuova Zelanda è stata sospesa da Anzus negli anni 80 a causa di posizioni antinucleari, e più recentemente quando si è formato il gruppo dei “Five Eyes”, un’agenzia di intelligence sovranazionale che comprende Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda.

(1 – continua)

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