Cinque anni di guerra hanno talmente devastato lo Yemen, il Paese più povero del Medio Oriente, da far definire l’attuale crisi un vero e proprio cataclisma. La guerra ha causato almeno 100mila morti, vi sono epidemie di colera e l’80% degli abitanti dipende dagli aiuti esterni per la propria sopravvivenza. Ora si è aggiunta la pandemia da coronavirus, che si abbatte su una popolazione allo stremo e con un sistema sanitario ormai alle corde.



Nonostante qualche timido tentativo di dialogo e un cessate il fuoco dichiarato dall’Arabia Saudita, gli scontri continuano tra la coalizione internazionale guidata dai sauditi e i ribelli Houthi sciiti. Quest’ultimi governano praticamente il nord del Paese, hanno conquistato anche la capitale Sana e sembrano disposti a trattare con Riyadh solo se quest’ultima li riconosce apertamente come un interlocutore per trattare sul futuro del Paese. Gli Houthi sono tutt’altro che sulla difensiva, come dimostrano gli attacchi con missili e droni contro Riyadh e diverse città dell’Arabia Saudita, che ha risposto con decine di attacchi aerei su Sana e altre città controllate dagli Houthi.



A metà dell’anno scorso si è aggiunto un altro scossone, quando movimenti separatisti nel sud del Paese hanno preso il controllo dell’area, cacciandone i sostenitori del governo in carica. I separatisti hanno conquistato anche Aden, dove il governo riconosciuto dall’Onu e sostenuto dai sauditi si era rifugiato dopo la perdita di Sana. Riyadh ha dovuto così aprire trattative anche con i separatisti di Aden, offrendo la costituzione di un nuovo governo con la loro partecipazione. Un’evoluzione che indica la grave difficoltà in cui si trova l’Arabia Saudita e il fallimento della politica estera dell’uomo forte saudita, il principe ereditario Mohamed bin Salman.



La vicenda di Aden evidenzia anche l’aumentato protagonismo degli Emirati Arabi Uniti. Nella guerra yemenita a fianco dei sauditi il loro ruolo era stato particolarmente attivo, ma da metà dell’anno scorso hanno ritirato gran parte dei loro militari e, soprattutto, hanno sostenuto i separatisti avversari del governo per il quale erano entrati nella guerra. Lo scorso mese, i governativi sono stati cacciati anche dall’arcipelago di Socotra e gli Emirati hanno sostenuto quest’azione, malgrado il dissenso di una parte della popolazione locale, che mal vede la presenza di Emirati e sauditi.

La strategia dell’Uae appare lineare e diretta al controllo di due stretti marini essenziali per il commercio del petrolio: lo Stretto di Hormuz e lo Stretto di Bab el-Mandeb. Il primo, nel quale è sempre latente un possibile scontro con il dirimpettaio iraniano, è essenziale per il traffico marittimo tra i Paesi del Golfo e l’Oceano Indiano. Da qui si stima passi più di un quarto del commercio totale del petrolio. Il secondo mette in comunicazione l’Oceano Indiano, attraverso il Golfo di Aden, con il Mar Rosso e il Canale di Suez. Il sostegno ai separatisti del Sud Yemen, con la presenza a Aden e Socotra, permette agli Emirati una decisiva influenza nell’area, rafforzata dalle sue basi sulla sponda africana, per esempio nelle regioni autonome somale del Somaliland e del Puntland.

Gli Emirati sono molto attivi anche in Libia, dove sostengono attivamente Bengasi e Haftar contro il governo di Tripoli. Una delle ipotesi avanzate sugli attacchi aerei dell’inizio di luglio contro la base di al-Watiya controllata dalle forze di Tripoli, è che siano stati opera di aerei degli Emirati partiti da una base in Egitto. Anche i sauditi sono schierati con Russia, Egitto e Francia, ma sembrerebbero meno coinvolti. Come già accennato, l’Arabia Saudita sta fronteggiando una situazione economica difficile, dato il taglio nei proventi petroliferi, e quella politica interna è altrettanto critica, a partire dall’assassinio Khashoggi alle faide interne alla famiglia reale. Né si può definire di successo la sua politica estera, come visto con la guerra in Yemen.

Sembra comprensibile, perciò, il tentativo degli Emirati di acquistare un ruolo più decisivo sulla scena geopolitica, ma devono porre attenzione a uno degli attori più attivi nella regione: la Turchia. Abu Dhabi e Ankara si trovano su fronti opposti in diverse questioni, a partire dalla contrapposizione sul Qatar, “messo all’indice” da Arabia Saudita, Uae e altri Stati del Golfo, ma sostenuto dalla Turchia, se non altro per le comuni simpatie per la Fratellanza musulmana. La stessa contrapposizione, e questa volta in armi, c’è in Libia, essendo il governo di Tripoli, avversario di Haftar, sostenuto militarmente da Turchia e Qatar.

Secondo qualche commentatore, il confronto non finirebbe qui, perché la politica neo-ottomana di Erdogan potrebbe estendersi allo Yemen, contrastando le strategie degli Emirati anche nel Bab el-Mandeb: la Turchia, infatti, ha una base militare in Somalia. Tuttavia, Erdogan deve stare attento a non aprire troppi fronti: in conseguenza della sua aumentata aggressività, perfino l’Europa potrebbe ritrovare un po’ di voce.