Il 14 giugno si terrà a Bruxelles un vertice della Nato, in cui il segretario generale, Jens Stoltenberg, illustrerà il programma futuro dell’organizzazione, denominato “Nato 2030”. Le proposte contenute nel progetto sono dirette ad assicurare che la Nato rimanga forte militarmente, diventi ancor più forte politicamente e con un approccio più globale. Viene anche sottolineato il ruolo che la Nato gioca nel rafforzamento dei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Europa, esplicitando al contempo il compito di “salvaguardare l’ordine internazionale basato sulle leggi a livello globale”.
Il tono dei comunicati è quello di un rilancio dell’Alleanza, entrata da diverso tempo in crisi, come a suo tempo reso evidente dalle pesanti dichiarazioni di Trump o dalla definizione di Macron di “morte cerebrale” della Nato. È quindi interessante analizzare quanto si sono detti Stoltenberg e Macron durante il loro recente incontro in vista del vertice. Il segretario generale ha fortemente elogiato la Francia, definita “il cuore della nostra Alleanza transatlantica”, con “truppe altamente qualificate, capacità all’avanguardia nell’intero spettro della deterrenza e della difesa” e, soprattutto, “investimenti importanti nella difesa, spendendo il 2% del proprio Pil”. Un richiamo a quegli Stati europei che continuano a spendere meno di quel fatidico 2%, a cominciare dalla Germania che, nonostante abbia incrementato la propria spesa, continua a rimanere al di sotto della soglia.
Macron nel suo discorso è partito mettendo in evidenza come Parigi sia la prima visita, sottinteso la più importante, di Stoltenberg prima del summit, per poi ribadire che il vertice deve servire a una chiarificazione politica sul ruolo e le priorità strategiche dell’organizzazione. Necessario perciò fare chiarezza sui valori, i principi e le regole sottese all’Alleanza, tra cui il rispetto del diritto internazionale, evitando che gli interessi nazionali finiscano per contraddire la sicurezza degli altri alleati. I casi sono quelli della Siria, del Mediterraneo Orientale, della Libia, del Caucaso, con un trasparente riferimento alla Turchia, con la quale i rapporti di Parigi sono piuttosto tesi. Peraltro, l’attacco iniziale alla Libia ha visto come co-protagonista proprio la Francia, contro gli interessi italiani.
Sarà molto interessante vedere gli esiti concreti del vertice Nato e degli altri incontri concomitanti di Bruxelles, ai quali parteciperà anche Biden: la riunione del G7, dall’11 al 13, e l’incontro tra Stati Uniti e Unione Europea del 15 giugno. Tanto più che il giorno dopo, a Ginevra, si incontreranno Biden e Putin, o se volete, “sleepy Joe” e “Putin the killer”, il che rende l’incontro ancor più interessante.
Per il momento, l’impressione è che la Nato sia un problema più per l’Europa che per gli Stati Uniti, la cui attenzione è di fatto concentrata sul Pacifico e sulla contrapposizione con la Cina. La penetrazione di quest’ultima in diversi Paesi europei va senza dubbio contrastata, ma non sulle basi militari proprie della Nato. Infatti, l’avversario “ufficiale” dell’Alleanza è la Russia, che però difficilmente può rappresentare una minaccia bellica diretta per gli Usa, così come non sembra probabile un’invasione russa dell’Europa occidentale. Rimangono tuttavia giustificati i timori dei Paesi un tempo satelliti dell’Unione Sovietica e che spesso ospitano cospicue minoranze russe, come i Paesi baltici. Putin sta in effetti utilizzando ampiamente il nazionalismo russo e la sindrome di accerchiamento, molto facilitato in questo dalla politica della stessa Nato.
La Nato non ha condotto nessuna azione bellica durante la Guerra fredda, ma si è ampiamente rifatta dopo lo scioglimento dell’Urss, in un modo che appare un po’ eccessivo per un’alleanza difensiva. Lo ammette lo stesso sito della Nato, in cui si afferma: “dall’essere un’alleanza esclusivamente difensiva per quasi mezzo secolo, la Nato ha incominciato ad assumere un ruolo sempre più proactive (preventivo) nella comunità internazionale”.
Questo nuovo ruolo ha avuto inizio, nei primi anni 90, con i bombardamenti sulla Serbia, per poi continuare con una serie di altri interventi, tra cui spiccano l’attacco alla Libia e l’intervento in Afghanistan. Quella contro il regime dei talebani è stata l’unica operazione condotta in base all’articolo 5 del Trattato, che prevede l’intervento in favore di uno Stato membro sotto attacco, richiesta dagli Stati Uniti dopo l’attacco alle Torri Gemelle.
L’aspetto paradossale è che da questi interventi ha tratto vantaggio la Russia, con il rafforzamento dei legami con la Serbia, per esempio, o assumendo un ruolo rilevante nella catastrofe libica. Malgrado le giustificazioni di facciata, la ritirata dall’Afghanistan dopo diciassette anni di guerra rimane una sconfitta, dolorosa in particolare per il popolo afgano lasciato in balia dei talebani. Un’ulteriore occasione di espansione per la Cina e anche per la Russia, cui si può aggiungere la continua presenza, anche militare, della Turchia nel Caucaso, come dimostrato dalla recente guerra tra Azerbaigian e Armenia.
In effetti, c’è molto su cui discutere e le risposte principali dovranno venire dagli europei, se mai troveranno una posizione comune.
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