“Putin richiama le varie violazioni del divieto dell’uso della forza fatte da Stati occidentali in Afghanistan, in Libia, in Iraq e in Kosovo. Putin sostiene che tali interventi sono illegittimi giuridicamente e non ha torto. Ha torto nel dichiarare che anche la Russia possa fare la stessa cosa”. È quanto afferma giustamente il professor Enzo Canizzaro nella sua intervista al Sussidiario. In effetti, “due torti non fanno una ragione” come recita il proverbio, quindi quella della Russia rimane un’aggressione, per la quale possono magari essere addotte motivazioni specifiche, ma comunque non giustificata dal fatto che altrove gli Stati Uniti abbiano compiuto azioni simili.
Tuttavia, se rimane intatta la responsabilità della Russia per l’aggressione all’Ucraina, rimane anche aperta la discussione sugli eventi citati da Canizzaro, di cui sono responsabili Stati Uniti e loro alleati. Altrettanto aperta rimane la discussione sulla continua invocazione dei principi di diritto internazionale, che sembrano però spesso applicati ai nemici ma interpretati per sé e i propri amici.
Nel 2001 gli Stati Uniti hanno attaccato l’Afghanistan con la cooperazione della Nato, intervenuta su richiesta di Washington in base all’articolo 5 del Trattato. Essendo la Nato un’alleanza difensiva, il citato articolo prevede l’intervento degli altri Paesi quando un membro Nato viene attaccato. L’Afganistan non aveva attaccato gli Stati Uniti, ma i talebani al governo si erano rifiutati di consegnare Osama bin Laden, il saudita capo di al Qaeda responsabile dell’attacco dell’11 settembre alle Torri Gemelle. Tra i 19 attentatori non vi era nessun afgano, mentre ben 15 provenivano dall’Arabia Saudita.
Mi sembra difficile trovare una giustificazione giuridica a questo attacco a un altro Stato. Certo, il governo dei talebani era tutt’altro che democratico, ispirato all’estremismo islamico, ma la questione bin Laden si poteva risolvere come di fatto si è poi risolta, con un’azione di commando che nel maggio 2011 ha ucciso il capo terrorista nel suo rifugio. Un omicidio mirato, ma che avrebbe potuto evitare la disastrosa guerra terminata l’anno scorso con la precipitosa ritirata degli Stati Uniti. L’operazione iniziata nel 2001 era stata denominata Enduring Freedom (Pace Duratura): dopo 20 anni di guerra l’Afghanistan è di nuovo sotto il tallone dei talebani e abbandonato a se stesso.
Una vicenda simile è quella dell’Iraq, invaso nel 2003 dalle truppe di una coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti. Lo scopo dell’operazione era abbattere il regime di Saddam Hussein, accusato anche di detenere armi di distruzione di massa. Questa accusa si è poi rivelata falsa. Saddam Hussein era senza dubbio un feroce dittatore, ma il suo abbattimento non ha portato né democrazia né pace in Iraq, come dimostrano tutti i conflitti scoppiati nel Paese dopo la sua destituzione. La situazione rimane estremamente critica anche oggi, a quasi vent’anni dalla invasione statunitense. Estremamente significativo quanto dice Rony Hamaui nella sua intervista al Sussidiario sul concetto di Stato nei Paesi islamici: “Diciamo pure che in questi Paesi il concetto di Stato, non dico di Stato democratico ma anche solo di Stato in sé, fa fatica ad affermarsi. Se ci fosse una dittatura, sarebbe già una cosa positiva, almeno finirebbe la guerra civile, questo è il paradosso”.
Un paradosso che sembrerebbe valido anche per la Libia. Nel 2011 Francia, Regno Unito e Usa hanno attaccato il regime di Gheddafi, ma dopo la morte del dittatore i conflitti sono continuati fino ai nostri giorni. Il Paese rimane estremamente diviso, non solo tra le tre parti che storicamente lo compongono, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, ma anche tra le numerose milizie che lottano per un maggior potere. Particolarmente attive sono potenze esterne, dal vicino Egitto alla Russia e alla Turchia, ma con una sostanziale assenza dell’Europa, a partire dall’Italia.
Una delle accuse rivolte a Putin è di aver annesso alla Federazione Russa la Crimea, a maggioranza russofona, annessione non riconosciuta a livello internazionale. Anche la Turchia ha occupato militarmente la zona di Cipro abitata da una maggioranza turca, costituendovi la autoproclamata e non riconosciuta internazionalmente Repubblica Turca di Cipro del Nord. Ciò non ha però messo in discussione l’appartenenza della Turchia alla Nato e, sebbene per il momento fermo, è ancora aperto il procedimento per la sua adesione all’Unione Europea, con la qualifica di Paese candidato.
La stessa Nato è stata parte determinante nel 1999, con i suoi bombardamenti su Belgrado, nella separazione dalla Serbia del Kosovo, che nel 2008 si è dichiarato indipendente ed è attualmente riconosciuto da più di metà dei membri dell’Onu. L’intervento della Nato era stato determinato dalla violenta repressione dei serbi nei confronti della maggioranza albanese e delle formazioni armate dei separatisti kosovari. Il Kosovo è tuttora presidiato da forze internazionali, cui partecipano anche militari italiani.
Nel Kosovo indipendente circa il 6% della popolazione è di nazionalità serba e i presunti maltrattamenti di questa minoranza sono alla base degli attuali pericolosi attriti tra Belgrado e Pristina. La Russia si è subito schierata a favore della Serbia, non solo per i legami storici, ma perché la ripresa di un conflitto nella penisola balcanica sarebbe disastrosa per l’Europa, favorendo Mosca nella sua guerra in Ucraina.
Gli esempi citati mostrano come prima di iniziare una guerra non basti stimare le probabilità di vittoria, ma sia necessario valutare anche le conseguenze del proprio intervento, per sé e soprattutto per le popolazioni locali. Tanto più se la guerra iniziata aveva lo scopo di liberare queste popolazioni. Una preoccupazione che è difficile aspettarsi da regimi autoritari, ma che dovrebbe essere implicita nel comportamento dei Paesi che si dicono democratici.
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