La storia insegna (dovrebbe insegnare) che la democrazia è un bene difficilmente esportabile, se non in società che autonomamente ne abbiano sviluppato i presupposti condivisi, che comprendono anche gli anticorpi per rintuzzare ogni eventuale regime diverso, dittatoriale, religioso, ideologico che sia. In tempi non lontani, l’Occidente aveva immaginato ad esempio che l’eliminazione di Muammar Gheddafi avrebbe democratizzato la Libia: da quella convinzione scaturirono i bombardamenti e la fine del leader della Rivoluzione della Gran Jamahiriya Araba Libica, nel 2011, leader che soprattutto i francesi volevano morto, dopo averlo individuato come il mandante di numerose azioni terroristiche.



Ma ci si accorse presto che i presupposti per una transizione democratica del Paese non c’erano. Nella Libia del post Gheddafi si scatenarono gli scontri etnici e gli appetiti dei generali, come Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica, capo dell’esercito nazionale libico, sostenuto dalla Russia, mentre l’Occidente tentava di varare un governo di unità, con Fayez Al Serraj. Oggi la situazione libica resta confusa: in larghe zone dominano milizie armate, che frequentemente si scontrano con altre forze, e politicamente il Paese resta fratturato tra Tripoli, con il GNU (il governo di unità nazionale) del primo ministro Abdul Hamid Dbeibah (che conta sulle truppe islamiste della capitale e di Misurata), e l’est della Camera dei rappresentanti, di fatto nelle mani di Haftar, anche lui di Misurata e singolarmente altrettanto supportato da guerriglieri islamisti. Un brutto esempio di semilavorato occidentale in terre musulmane, mai interamente comprese.



Ancora più disarmante l’esempio dell’Iraq, con un altro dittatore, Saddam Hussein, finito nel mirino dell’Occidente prima per l’invasione del Kuwait (prima guerra del Golfo, gennaio-febbraio 1991), poi per le accuse di terrorismo internazionale e di detenzione di strumenti di distruzione di massa (seconda guerra del Golfo, dal 2003 al passaggio definitivo di consegne nel 2011). Quelle armi totali non furono mai trovate, i legami di Hussein con al-Qaida non sono mai stati dimostrati, le elezioni post Hussein non hanno sortito nessun governo western-oriented e gli scontri tra gruppi etnici e religiosi continuano a rendere il Paese sempre insicuro per la popolazione.



Al triste elenco – che limitiamo a tempi recenti, ma che potrebbe affondare le radici in un passato anche remoto, basti pensare alle sorti dei francesi prima e degli americani poi in Vietnam – non può mancare (come esempio al contrario) il Sudan, la guerra dimenticata, un Paese spaccato in due, libizzato, dove infuria la lotta per il potere tra il presidente generale Abdel Fattah al-Burhan e il suo vice, il generale Mohammed Hamdan Dagalo, a capo del gruppo paramilitare Rapid support forces (Rsf), con scontri quotidiani nella capitale Khartoum e in tante altre zone. Proprio le Rsf, originarie del Darfur (rifornite di armi e droni da combattimento dagli Emirati Arabi e dal gruppo di mercenari russo Wagner), sono accusate di atrocità e massacri contro le popolazioni non arabe dei Masalit.

Secondo l’Onu finora il conflitto ha causato tra i 9 e i 10mila morti, oltre 4 milioni e mezzo di sfollati, e 1,3 milioni che hanno varcato la frontiera con i Paesi vicini, soprattutto Ciad, Egitto, Sud Sudan, Etiopia e Repubblica Centrafricana. L’Occidente collettivo (come lo chiama Putin), fin dall’indipendenza del Paese dal Regno Unito, nel 1956, è rimasto a guardare le pulizie etniche (come nel Darfur), i ripetuti colpi di Stato, l’indipendenza del Sud Sudan (nel 2011), le atrocità dei vari governi militari. Le iniziative occidentali più recenti sono state le evacuazioni delle delegazioni diplomatiche e la chiusura delle ambasciate.

Sia negli interventi che nelle sue assenze, quindi, l’Occidente finisce sul banco d’accusa, specie se si tratta di quadranti mondiali che esulano dalla sua influenza diretta, come oggi l’Africa o l’Oriente. Ma la goffaggine geopolitica e militare non è peculiarità solo dell’Occidente: basta pensare alla Russia in Afghanistan, tra il 1979 e il 1989, dieci anni di guerra inconcludente, finita con l’abbandono del territorio ai mujaheddin. E sempre la Russia sta tragicamente dimostrando di aver costruito la sua strategia nella “operazione militare speciale” in Ucraina su presupposti totalmente sbagliati: dopo 18 mesi si continua a sparare, e morire, in una situazione praticamente di stallo.

Ma tornando all’Occidente, nei due impegni odierni, pro Ucraina e pro Israele, sembra invece di poter distinguere la messa a terra di una sua ragione sociale, che nell’ideale statuto vede la difesa dello Stato di diritto e dei suoi territori, e la difesa dell’incolumità dei Paesi da azioni terroristiche atte alla loro distruzione. Si tratta però, in entrambi i casi, di verificare la tenuta degli sforzi alla luce del tempo (non si vede ancora una possibile fine dei combattimenti in Ucraina), dei “danni collaterali” (le migliaia di vittime civili a Gaza), dei costi e del sostegno politico ai governi coinvolti. Ma soprattutto non è dato scorgere in entrambi i casi un disegno realistico sul dopo, malgrado le diplomazie tentino strade a volte stravaganti. Come la proposta che si rifarebbe agli Accordi di Abramo (firmati nel 2020 tra Israele, Emirati Arabi, Bahrein e Stati Uniti) per ipotizzare una forza di sicurezza araba a Gaza per gestire la transizione verso una Palestina indipendente. O l’idea recentemente rilanciata da Usa e Onu sui due Stati, una vecchia strategia già abbondantemente respinta da Benjamin Netanyahu, che però potrebbe ritrovare vigore una volta sostituito il premier israeliano. Ancora più difficile la consegna della Striscia nelle mani dell’Autorità Palestinese della West Bank e di un Abu Mazen più che mai debole e screditato.

Situazione sempre incerta anche per il dopoguerra in Ucraina, vista la radicalizzazione delle posizioni assunte, l’assurdo costo in vite umane, l’enorme spesa sostenuta e gli altrettanto enormi costi dell’eventuale riparazione, cifre che l’aggressore russo sicuramente non intenderà sostenere. Democrazia non esportata e regimi debordanti, insomma, quelli visibili in chiaro (Putin) ma anche quelli criptati, come quelli deliranti dei terroristi di Hamas e degli ayatollah sciiti iraniani, che muovono le fila e i missili di una costellazione di guerriglieri sparsi in tutto il Vicino e Medio Oriente. Le popolazioni coinvolte, quelle che subiscono le aggressioni ma anche quelle che di fatto supportano in un rassegnato silenzio le follie dei propri leader, sono destinate a subire i danni di una mancata emancipazione democratica, che nessun Occidente potrà mai surrogare.

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