Un recentissimo post di Lucia Tozzi (studiosa di politiche urbane) su Lucy Agency rilancia un tema già da molto discusso: “Il buon turista non esiste”. La sua tesi è quella del turista predatore (delle case dei residenti nelle destinazioni, ogni volta che prenotiamo un Airbnb o un Booking, costringendo le persone a “diventare in qualche modo servitori-camerieri, maestri di sci o kitesurf, animatori, commessi, bagnini, guide, insomma ad abbracciare tutti i mestieri precari, stagionali e poco redditizi che dipendono dai flussi turistici. Ci accaparriamo la loro acqua per giocare a golf su prati molto verdi, ci riserviamo l’uso esclusivo delle loro spiagge più belle, dei musei e monumenti più importanti, dei mezzi di trasporto più efficienti”). Un’usurpazione del territorio che “alimenta la produzione di nuova edilizia, nuove strade, nuovi parcheggi, nuove piste da sci, nuovi impianti di risalita, nuovi porti turistici, nuovi aeroporti sempre più simili a centri commerciali: ammassi di cemento che deturpano quei territori che, se prima erano molto amati perché vergini, ora finiscono per non piacerci più; e allora, si va in cerca di altri lidi, più o meno incontaminati da conquistare e poi abbandonare, in un loop senza fine”.



Il turista, per Tozzi, sarebbe l’attore di una forma subdola di colonialismo, una forza che non si limita a sfruttare le risorse, ma gerarchizza la società dei residenti. “L’unica illusione di democrazia viene offerta dalla possibilità, per chi serve, di essere servito in qualche altro posto”.

E qui si ritorna all’assunto ormai comunemente accettato “i turisti siamo noi”, non distinti dagli altri, i forestieri, additati spesso come orde barbariche che agiscono sui territori come defolianti di costumi, tradizioni, vita e servizi quotidiani.



Ma “la questione non è purificarsi dal turismo”, quanto “rinunciare all’idea di sentirsi buoni viaggiatori”, perché “il turismo sostenibile non esiste”. “Amare il viaggio non significa magnificarne le virtù. I dati sull’overtourism sono inequivocabili: il 20% della popolazione mondiale (1,46 miliardi su 8) si sposta internazionalmente ogni anno, mentre nel 1950 lo faceva solo l’1% (25 milioni su 2,5 miliardi). Se lo facessero tutti, non ci sarebbe più spazio per abitare, fare ricerca, andare a scuola, vivere – se non per pochissimi privilegiati. Il desiderio di viaggiare è in aperto conflitto con il desiderio di redistribuire la ricchezza, e almeno per ora è molto più diffuso. A livello morale, ognuno troverà i compromessi con la propria coscienza. A livello politico chi desidera l’uguaglianza può felicemente combattere il turismo senza tema di essere equiparato agli ideologi dell’austerità. Chi non la desidera, almeno ci risparmiasse le penose retoriche del trickle-down”.



Tozzi fa riferimento alla diffusione di abitudini comportamentali dalle classi più elevate alle classi meno abbienti, trascurando però una ricaduta direttamente collegata, la gentrificazione, ossia la riqualificazione di intere zone, con la conseguente crescita del loro valore. E saltando del tutto la verifica sulle conseguenze che l’undertourism creerebbe.

Abbiamo voluto interrogare su queste tesi alcuni stakeholder, i quali, ognuno per proprio verso, ha una visione a volte ben diversa di cosa si intende oggi per turismo, un’industria che, lo ricordiamo, vale da sola oltre il 13% del Pil italiano, un valore superiore agli altri comparti, e che funge da traino per l’economia nazionale.

Recentemente, a Fiumicino, abbiamo raccolto il parere di alcuni manager di una grande compagnia aerea. “Incolpare chi viaggia dell’incapacità di dare utilità e delle conseguenze sull’ambiente e la vita quotidiana – ci ha detto uno di loro – mi sembra una visione miope e soprattutto semplicistica. Ieri, ma anche nel precedente weekend, mi sono arrabbiato per il servizio di controllo passaporti in questo aeroporto: code interminabili di turisti perché non si riesce ad aumentare il numero degli agenti di polizia addetti. Questo servizio gli agenti di polizia non lo considerano qualificante, non lo vogliono fare nel weekend e ad agosto vogliono andare in ferie. Chi scrive su media e social considera tutto questo un fenomeno di overturism, suggerendo di non andare in vacanza o partire di martedì. Questa è miopia, perché il problema è che ADR, con tutti i miliardi di utili che fa, deve raggiungere un accordo con le forze di polizia e dare un contributo per pagare straordinari o il lavoro la domenica e un incentivo a quegli agenti di polizia che lavorano ad agosto. Il mio concetto è che il turismo non è la vacanza, ma è un’industria e come tale deve essere organizzata e gestita. In questo modo si consentirebbe di creare ricchezza per il Paese. Ritengo che non ci sia un’industria più sostenibile del turismo: farla crescere vuol dire preservare l’ambiente e aumentare il benessere sociale”.

Agostino Scornajenchi è amministratore delegato e direttore generale di CDP Venture Capital SGR. “Viaggiamo tutti di più, ma viaggiamo peggio. Nel senso che non scopriamo territori, non li viviamo, ma corriamo dietro – se va bene – ad un articolo di stampa, ad un programma tv, ad una recensione sui social di questa o quella località. Vivevamo le villeggiature da ragazzi. Dove c’era il tempo di annoiarsi. E la noia ci spingeva a scoprire e a valorizzare anche località oggettivamente perfettibili. Oggi viaggiamo senza conoscere, senza informarci (perché non desideriamo di farlo) ma solo perché vogliamo anche noi essere parte dell’articolo che abbiamo letto. E postando sui nostri social in effetti partecipiamo alla costruzione di questo articolo.

Diciamo che passeggiamo rapidamente sulla superficie dei territori, delle città d’arte, dei nostri paesaggi. Ma effettivamente non li tocchiamo. O meglio ne tocchiamo quell’aspetto organizzato che ci permette di vivere per un attimo l’illusione di conoscere ed essere veramente parte del luogo, ma in realtà siamo solo in un negozio di souvenir fatti a Taiwan, o abbiamo di fronte una guida che ci sta propinando un pacchetto di chiacchiere che anche lui non ne può più.

Facciamo la fila per vedere i musei che tutti vedono. E poi facciamo la fila per scattare la foto al quadro più famoso del museo: il trofeo per dimostrare che ci siamo stati. Ci ho messo mezz’ora settimana scorsa ad arrivare a vedere l’autoritratto di Van Gogh (che poi è un quadruccio grande così) o il cielo stellato dello stesso autore. Ma nessuno guardava le opere. Le fotografava, che è cosa ben diversa. Questo preambolo per dire che, a mio modestissimo ed impreparatissimo avviso, vincerà nel turismo chi aiuterà i clienti a vivere le località, non a camminarci sopra. Sono stato due settimane negli Stati Uniti, ho speso complessivamente più di ventimila euro per tre persone. Le cose che porto con me non hanno niente a che fare con quello che abbiamo visto. Ma hanno tutto a che fare con quello che abbiamo vissuto.

Una passeggiata senza meta nel centro di Boston, e all’università, tre ore su una catboat in legno nei laghetti dell’entroterra di Cape Cod (200 dollari per noleggiare una barca del 1920, perfettamente tenuta. Me ne avessero chiesti dieci volte tanto non avrei fiatato e avrei pagato). Una passeggiata con le mani in tasca di notte intorno alla Casa Bianca dopo averne studiato la storia nelle settimane precedenti. Dobbiamo vedere meno cose, dobbiamo viverne di più. Il mio frigorifero ospita calamite di tutto il mondo, ma al massimo una decina di loro rappresenta una esperienza vissuta. Il resto… arrivi e partenze. Caspita, in Italia anche il più sfigato dei paesotti ha una storia bellissima da raccontare… Secondo me chi capisce (e fa capire) questo, vince. Non abbiamo bisogno del superlusso per viaggiare con gusto. Abbiamo bisogno di tempo e di qualcuno che sveli la magia di quello che vediamo”.

Andy Varallo è presidente Dolomiti Supersky. “Mi sembra un articolo scritto da chi dimostra profonda cultura e allo stesso tempo esprime argomenti che continuamente ci troviamo a combattere. Nel finale fa sorgere l’impressione di non voler colpevolizzare il turismo, ma di voler inviare un chiaro messaggio a chi volentieri giudica ma non agisce poi in maniera coerente per soddisfare i suoi bisogni personali. Il mondo è fatto oggi di persone pronte a giudicare più che a capire anche le esigenze degli operatori turistici. Non dobbiamo combattere su fronti opposti, ma con dialogo e rispetto reciproco trovare compromessi concretamente realizzabili e che abbiano un fondamento economico per chi fa impresa”.

Paolo Possamai, direttore editoriale NEM, Nord Est Multimedia. “Si tratta di una provocazione. Qualsiasi attività umana ha un impatto ambientale, anche quella di scrivere articoli sul web (lo ammette la stessa Google). Ma assunto questo dato, la provocazione ci mette in guardia rispetto alla “venezianizzazione” di ogni brandello di mondo e ci dovrebbe spingere a essere massimamente vigilanti e esigenti nel ridurre al minimo l’impatto ambientale del turismo (e dell’industria e dell’agricoltura etc. etc.)”.

Graziano Debellini è presidente TH Group. “Bisogna chiarire alcuni aspetti. Il turismo è un’industria: la sua lunghissima e frastagliata filiera produttiva vale oggi ben più delle percentuali che comunemente vengono citate, e dà lavoro a centinaia di migliaia di persone, garantendo un reddito alle loro famiglie. Ma il turismo è un’industria particolare, che non può in alcun modo delocalizzare la produzione, ed è sensibile (al pari di un’azienda del settore primario) a tempi morti e agli andamenti climatici anche nei periodi stagionali in cui si estrinseca. Detto questo, pensare di limitarlo, di costringerlo in parametri restrittivi, sarebbe come voler eliminare qualsiasi altro fattore di attrazione di una destinazione (uffici, fabbriche, attività commerciali e di servizi) per garantire la rarefazione delle presenze, una presunta maggiore vivibilità sulla quale immolare il tessuto economico e sociale raggiunto, spesso a fatica. Oggi l’equilibrio tra overtourism e sostenibilità va declinato anche nel rapporto tra sviluppo economico, gestione delle risorse e trasformazione sociale. Non si vedono possibilità diverse dal raggiungimento di una governance in grado di mitigare gli effetti più negativi del sovraffollamento, senza deprimere le attività e gli investimenti. Magari con un vero piano industriale in grado di recepire gli input delle parti ma anche di guardare senza preconcetti al bene comune, senza cedere a facili populismi o alle mode del momento”.

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