Dopo esserci occupati della crisi dell’ordine neoliberale, Ue compresa, passiamo al “rapporto transatlantico”, perno italiano dal 1945 di qualsiasi presidente della Repubblica e del Consiglio dei ministri. L’ultima manifestazione di tale “rapporto” fu nel 1999 con il bombardamento di Belgrado. Dal 2016 in poi più che di un rapporto si tratta di un totem. Un totem che conviene più agli europei che agli americani.



Dopo le scurrili e irriverenti parole della Viktoria Nuland nel 2014 – che ufficialmente mandò a quel paese l’Ue (e indirettamente la Nato) sulla questione ucraina – l’avvento di Trump e l’eco francese di Macron (“ne possiamo fare a meno”; “morte cerebrale della Nato”) il rapporto transatlantico non esiste più. Restano delle “istituzioni burocratiche di difesa e sicurezza” che l’egemone spinge dove vuole. L’ultima destinazione è in Indo-Pacifico che con l’Atlantico, vero fulcro del fu rapporto, non ha nulla a che fare.



Ci andranno i britannici – che dal 1917 per esistere seguono gli Usa ovunque – ma è improbabile che gli altri membri europei s’iscrivano volontariamente a tale nuova missione. Anzi, sarà ben più improbabile che nel 2003 in Iraq. Quindi, più che un rapporto transatlantico si tratta di auto-vassallaggio – gli americani sono ben consci che l’apporto tecnico-militare europeo è irrilevante, soprattutto quello aeronavale – nel tentativo di ricevere la benevolenza dell’antico egemone mondiale, con il quale si è almeno abituati a trattare nel bene e nel male.

Mentre gli italici guerrieri democratici rinnovano atti di fede all’antico egemone – si pensi alle dichiarazioni di Letta, Guerini e Mattarella, oltre a quelle di esagerato atlantismo di Draghi e poi di Meloni – nessuno a Washington li ha chiamati a prendere parte in modo reale in operazioni che vanno al di là dei propri territori e di quelli strettamente limitrofi. Un po’ di ciurma e la bandiera vanno bene, ma nulla di più, thank you! Finanche la mitica “potenza” britannica è stata richiamata all’ordine quando ha pensato di impressionare l’antico egemone con fughe in avanti nel Mar Nero o in quello cinese. D’altronde, le portaerei britanniche sono nei fatti “affittate” agli americani che vi operano con propri aerei e truppe.



Per quanto riguarda i vagheggiamenti di “autonomia strategica” e di “forza militare europea” in ossequio alla fantastica “bussola strategica” (Eu Strategic Compass) c’è da osservare che, al di là della vaghezza sconcertante del testo, le effettive capacità logistiche europee impediscono la realizzazione del progetto e che non essendo l’Ue una potenza riconosciuta dalle altre (che sono solo tre: Usa, Russia e Cina) non sarà permesso agli europei di avere tali capacità.

Insomma, a distanza di un secolo dal suicidio di potenza europeo, oggi siamo senza potenza e senza un reale “rapporto” transatlantico, cioè senza un vero paracadute. Il famoso articolo 5 del Patto Atlantico, infatti, si attiva se l’egemone ne riconosce la necessità. A dimostrazione di ciò basta ricordare che quando nel 2001 i membri europei richiesero tale attivazione, gli sberleffi di Washington furono stampati nell’etere e ancora echeggiano. Anche in questo caso, per l’Italia e l’Europa sarebbe opportuno uscire dalla mentalità del 1943-48 per sviluppare un “rapporto sano con gli Stati Uniti d’America” in modo tale che permetta di averne uno anche con il resto del mondo. Non farlo, o non saperlo fare, è una autocondanna che vivremo per generazioni. Insomma, si tratta di diventare adulti! In Italia siamo fermi agli emuli scialbi di De Gasperi, ma nel resto d’Europa non si vedono dei Churchill, degli Adenauer e dei De Gaulle. Aspettarsi che dei burocrati quali la von der Leyen o Borrell lo facciano per noi è come cercare la luna nel pozzo.

Infine, cerchiamo di capire che succede con Russia, Cina, e il resto del mondo. A corollario di quanto già abbiamo scritto su queste pagine su Russia e Cina, vale la pena segnalare che negli Stati Uniti d’America qualcosa sta cambiando: il monolite della retorica sul “mondo libero” si è degradato senza recupero. Un recente editoriale di Thomas Friedman sul NYT evidenzia la “disfunzione politica” della grande superpotenza: “Nulla di buono verrà dalla visita di Nancy Pelosi a Taiwan. Taiwan non sarà più sicura o più prospera a seguito di questa visita puramente simbolica, e potrebbero accadere molte cose brutte. Queste includono una risposta militare cinese che potrebbe portare gli Stati Uniti a precipitare in conflitti indiretti allo stesso tempo con una Russia e una Cina dotate di armi nucleari. E se pensate che i nostri alleati europei – che stanno affrontando una guerra esistenziale con la Russia per l’Ucraina – si uniranno a noi se ci sarà un conflitto degli Stati Uniti con la Cina su Taiwan, innescato da questa visita inutile, state male fraintendendo il mondo. È una misura della nostra disfunzione politica che un presidente democratico non possa dissuadere un presidente democratico della Camera dall’impegnarsi in una manovra diplomatica che tutta la sua squadra di sicurezza nazionale – dal direttore della Cia al presidente dei Joint Chiefs – ha ritenuto poco saggia”.

Il problema nel mondo è lo stesso che fu già identificato a partire dal 1958 dai grandi presidenti africani dell’indipendenza coloniale con i loro saggi pubblicati da Foreign Affairs – Kwame Nkrumah (Ghana), Sékou Touré (Guinea), Abubakar Tafawa Balewa (Nigeria), Julius Nyerere (Tanzania) – che chiedevano all’Occidente, che all’epoca vedeva ancora l’Europa in primo piano, di cambiare rotta, di abbandonare il mito del “buon selvaggio”, di riconoscere che il dominio non era più all’ora della storia poiché c’era urgente bisogno di “libertà ed eguaglianza tra gli esseri umani”. Richieste e speranze disattese dagli europei e dagli americani. Oggi quelle stesse richieste sono interpretate dalla Cina attraverso un capillare reticolo di relazioni mondiali, prevalentemente commerciali, sostenuto anche dalla Russia e dall’India, al quale aderiscono i due terzi dei Paesi del mondo. La risposta occidentale di “armare il sistema finanziario” per perpetrare il dominio mondiale deve fare i conti con la realtà. Prima ci sarà questa presa di coscienza occidentale e meno si correrà il rischio di un declino disastroso o peggio di uno scontro nucleare, magari iniziato a causa di un incidente involontario (1914 docet).

(2 – fine) 

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