Il coronavirus è al centro non solo delle notizie che riguardano la sua fatale diffusione in Italia e nel resto del mondo, ma anche delle discussioni sul futuro assetto geopolitico. Lasciando da parte le reciproche accuse tra Stati Uniti e Cina di aver artatamente diffuso il virus, è certo che la situazione economica globale e la geopolitica subiranno forti cambiamenti, peraltro già in atto.



Credo sia da tenere presente quanto scrive Paolo Quercia sul Sussidiario circa le conseguenze di un impatto particolarmente grave dell’epidemia sulla capacità di resistenza degli Stati Uniti. Il Congresso ha appena deciso cospicue misure per contrastare il virus sul piano interno, ma la inevitabile crisi porterà a un rafforzamento del trumpiano “America first”, con una revisione degli impegni all’estero. Si aggiunge, poi, un’Europa che sta rivelando sempre più la propria crisi, all’interno e all’esterno. La conclusione potrebbe essere, come scrive Quercia, che “Pechino rischia di essere il vincitore solitario di questa strana partita geopolitica, quantomeno nel breve termine”.



Si potrebbe dire che lo potrà diventare grazie al virus che proprio la Cina ha “esportato”, ma il processo ha origini più lontane, nella fine della Guerra Fredda, nell’illusione del “Secolo americano” e nella sua caduta, insieme al fallimento della”pax americana” e l’inizio del ritiro statunitense. Un ritiro iniziato già con Obama e poi accelerato, in modo quantomeno contradditorio, da Trump. Come sempre, il vuoto si sta progressivamente riempiendo, con la Russia “alla riscossa” e la Cina che dimostra apertamente la volontà di riproporsi come “l’Impero di Mezzo”, e questa volta non solo asiatico. 



La Cina è stata per decenni “la fabbrica a buon mercato” dell’Occidente, che ora sta pagando il prezzo per avervi concentrato molte produzioni divenute necessarie durante l’epidemia. Gli Stati Uniti hanno tratto vantaggio dall’avere nella Cina un forte acquirente dei loro titoli di Stato, oltre che dal suo ruolo di traino dell’economia mondiale. Non c’è da stupirsi se ora Pechino presenta il conto, approfittando della sua potenza demografica e tecnologica (non producono più soltanto magliette a basso costo!) e di un regime dittatoriale di stampo comunista, ma che sa trarre tutti i vantaggi del capitalismo. Per non parlare della sempre più diffusa presenza in ogni continente, Europa e Italia comprese.

I rapporti economici e commerciali con la Cina di Germania e Francia sono decisamente più intensi che i nostri, ma ciò che preoccupa è la maggiore nostra debolezza, sia di sistema che di governo. Sotto questo profilo, e non da ora, è particolarmente grave l’assenza di una chiara e consistente politica estera, mancanza che può dimostrarsi letale in vista dei prossimi sconvolgimenti nello scenario geopolitico.

Sono giustificate, perciò, le preoccupazioni espresse in vari articoli sul Sussidiario, per esempio nell’ampio articolo di Giulio Sapelli, in cui si denuncia l’appiattimento verso Pechino di parte dei politici al governo. Sapelli, però, include anche Germania e Francia nei possibili partner della Cina, citando per esempio la “compartecipazione” nel controllo della disastrata Grecia. Il punto è ancora la diversa forza dello Stato e, almeno per ora, la diversa consistenza della classe politica, che consentono una trattativa a minor rischio con l’Impero di Mezzo.

Sullo sfondo vi è la preoccupazione di Sapelli che l’Italia cada nelle braccia del regime di Pechino, per convenienza e insipienza dei nostri politici, abbandonando la tradizionale ed essenziale alleanza con gli Stati Uniti. Preoccupazione condivisa da Paolo Annoni che in un suo recente articolo fa presente come “l’interscambio commerciale con l’America è un multiplo di quello cinese. Non solo, siccome gli americani non hanno più l’industria forse potremmo tornare utili mentre i settori italiani falcidiati dalla concorrenza cinese, fatta senza diritti, sono tantissimi. Questo senza considerare il conto di una dittatura in cui il dissenso semplicemente non è ammesso”.

Difficile non essere d’accordo, ma rimane dell’amaro in bocca, perché sottostante a queste posizioni e ad altre consimili vi è una premessa: l’Italia non può permettersi neppure di costruirsi solide alleanze e l’unica possibilità è di scegliere il miglior “padrone”. Annoni ha il coraggio di esplicitare il problema in chiusura del suo articolo: “Va bene vendersi, ma non sarebbe il caso di trovare un compratore migliore?”.

Allora, vale forse la pena di affrontare direttamente la questione, di mettere sul tavolo pro e contro delle varie “svendite”, tenendo conto che c’è chi preferirebbe la Francia o la Germania come compratori. Annoni ha però messo un punto di domanda alla sua affermazione, quindi: è proprio definitivamente acquisito che dobbiamo venderci?

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