Il 2 aprile l’amministrazione Trump, attraverso l’introduzione unilaterale di dazi universali, ha trasformato il paradigma protezionistico dell’America First in qualcosa di nuovo e incerto. Alla prova dei fatti, la riconfigurazione della globalizzazione basata sulla riconversione in senso domestico dell’economia americana si è rivelata essere l’avvio di una fase di caos sistemico i cui esiti sono, al momento, inimmaginabili.
Qualora l’introduzione dei dazi annunciati dal presidente Trump fosse stata concepita come la piattaforma negoziale sulla quale avviare delle trattative – e molti indizi vanno in questo senso –, gli eventuali accordi raggiunti con i partner commerciali comporterebbero un costo ben più elevato rispetto ai benefici auspicati.
Con tale scelta, infatti, gli Stati Uniti hanno irrimediabilmente compromesso la fiducia di tutti gli attori del commercio internazionale, e senza fiducia non può esistere una leadership globale. A riguardo la storia ci fornisce dei precedenti molto interessanti. Quando negli anni 30, una fase di incertezza e transizione, gli Stati Uniti introdussero lo Smoot-Hawley Act e il Regno Unito, con la Conferenza economica imperiale di Ottawa del 1932, decise di avviare una fase di protezionismo, si innescò una dinamica dell’ordine economico internazionale che moltiplicò gli effetti negativi della crisi del 1929.
Due casi che dimostrano che se la potenza egemone decide di rinunciare alla sua funzione di garante della stabilità dell’ordine economico il sistema entra in crisi e tende a strutturarsi in blocchi autonomi e instabili. La Cina sembra essere al momento l’unica potenza in grado di tramutare l’instabilità di questa fase in una opportunità. Sono sempre più gli analisti e giornali a puntare su Pechino.
In particolare, le recenti misure intraprese dal governo di Pechino sono state giudicate come il risultato, riuscito, di mettere in sicurezza il Paese garantendone l’autosufficienza tecnologica e industriale e collocandosi in anticipo sui mercati del futuro. Anche se è lecito avere dubbi sullo stato di salute complessivo dell’economia cinese, essa, dopo la crisi del mercato immobiliare, ha mostrato capacità di ripresa e Xi Jinping sembra aver capito che l’eccessivo controllo del settore privato rischia di porre un freno all’innovazione, come dimostra il recente incontro, dal valore programmatico, del presidente cinese con Jack Ma, il fondatore di Alibaba.
Ma soprattutto, Pechino ha una capacità di finanziare le imprese strategiche che risulta inimmaginabile per tutte le altre econome nazionali. A riguardo l’Economist ricordava che le amministrazioni locali per rifinanziarsi dispongono di 6 trilioni di yuan (830 miliardi di dollari) per le obbligazioni nell’arco dei prossimi tre anni e di altri 4,4 trilioni di obbligazioni “speciali” quest’anno.
Inoltre, dopo un lungo periodo di deflazione, i prezzi hanno ripreso a crescere grazie agli ampi margini di manovra del governo cinese, che ha potuto elevare gli obiettivi di deficit fiscale fino al 4% del Pil, con lo scopo di rilanciare i consumi interni, considerati la priorità assoluta per quest’anno.
Anche se le tariffe di Trump avranno un impatto considerevole sull’economia cinese (che dovrebbe costare, per l’economista cinese Yu Xiangrong, lo 0,7% del del Pil), si stima che il mercato interno cinese valga 6,9 trilioni di dollari, una cifra decisamente maggiore rispetto ai 525 miliardi di dollari di esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti nel 2024.
Attraverso la combinazione di investimenti in settori chiave, il sostegno dei consumi interni e il perseguimento dell’autonomia energetica, Pechino ha ri-orientato in senso domestico la propria economia e sembra aver raggiunto la National Self-Sufficiency di cui parlava Keynes. Un obiettivo che si potrà ritenere compiuto se il riavvicinamento a Giappone e Sud Corea si realizzerà del tutto, eventualità resa possibile dai dazi indiscriminati dell’ammirazione Trump.
Un risultato che può avere delle conseguenze significative se consideriamo che anche le imprese di Taiwan dovranno fare i conti con tariffe del 32%. Benché i semiconduttori non vengano interessati da queste misure, è da considerare l’impatto che esse avranno sulla fiducia del governo di Taiwan nei confronti dell’amministrazione Trump. Cessando di essere un partner prevedibile, gli USA favoriscono una maggiore distensione tra Taiwan e Cina, che al momento ha più opzioni sul tavolo per gestire il dossier della riunificazione.
Per la prima volta Pechino può decidere se utilizzare l’instabilità di questa fase per forzare la mano o per autorappresentarsi come il soggetto più affidabile e razionale. Capitalizzando gli errori degli americani e mostrando una grande flessibilità tattica, Pechino è tornata ad essere il player principale dell’Asia orientale. Il mondo ha perso il suo centro stabilizzatore e la Cina ha capito che non può avere la stessa funzione degli USA, ma diventando il perno dell’economia regionale dell’Asia orientale può dare vita a un nuovo tipo di egemonia economica che plasmerà il mondo del XXI secolo.
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