L’Africa è il continente che ha vissuto il maggior numero di conflitti negli ultimi cinquant’anni, con un bilancio delle vittime che alcuni stimano a quasi 10 milioni. C’è una specificità dei conflitti in Africa? In realtà di specificità ce ne sono numerose e ciò dimostra ancora una volta come la realtà sia estremamente più articolata e fluida degli schemi teorici che vorrebbero inquadrarla ed interpretarla in modo coerente. Non dimentichiamoci infatti che i conflitti – soprattutto quelli africani – sono determinati da numerose cause che si intersecano e si legano le une alle altre. Ben lungi dal pretendere di inquadrarli tutti vediamo di individuare alcune cause dei conflitti africani.
Conflitti interstatali
Se cerchiamo di raggruppare i conflitti africani in alcune categorie sempre adattabili non possiamo certamente trascurare il fatto che numerosi conflitti sono i classici conflitti interstatali, basati su rivendicazioni territoriali. Ci sono un totale di una trentina di territori rivendicati da uno o più Stati, molto di più che in qualsiasi altro continente. Quindi, lontano dall’immagine generalizzata del fallimento dello Stato e del fallimento dell’idea di Stato-nazione, vediamo in Africa una notevole persistenza di questo secolare istituzione. Facciamo alcuni esempi per chiarire meglio di cosa stiamo parlando.
Primo esempio. La presenza dei popoli somali in Ogaden, nel sud di Gibuti e nel Kenya orientale è stata uno dei fondamenti della retorica espansionista dei presidenti somali degli anni 70 e 80. Dalla decomposizione dello Stato somalo negli anni 90, sono i movimenti jihadisti e in particolare quello degli Shabaab che raccolgono questa idea. Nonostante la retorica della partecipazione a un presunto jihad universale, le loro effettive zone di combattimento sono nei territori già contesi dove operavano guerriglie separatiste.
Secondo esempio. Alla fine del 1985, scoppiò un conflitto, noto come “Guerra di Natale”, tra Mali e Burkina Faso per la sovranità sulla striscia di Agacher, una striscia di terra scarsamente popolata ma fondamentale per le popolazioni nomadi nella regione perché ospita un punto d’acqua strategico.
Conflitti, colonizzazione e confine territoriale
Vediamo adesso di individuare alcune cause diverse da quelle poc’anzi menzionate. Alludiamo in modo particolare al rapporto tra la colonizzazione e il confine territoriale.
Una delle principali cause di conflitti di questo tipo è l’eredità dei confini coloniali. La conferenza degli Stati dell’Oua al Cairo affermò nella sua dichiarazione del 21 luglio 1964 che “tutti gli Stati membri si impegnano a rispettare i confini esistenti al momento del raggiungimento dell’indipendenza”. Questi confini venivano spesso tracciati secondo gli interessi delle potenze, come tra il Sudan francese e il Sudan inglese dopo la crisi di Fashoda quando, il 21 marzo 1899, i due territori furono delimitati secondo gli spartiacque del lago.
Ma i confini pongono altri problemi. Per gli Stati africani precoloniali, il confine era soprattutto una linea di demarcazione territoriale con accordi di appropriazione concertata tra nomadi e persone sedentarie nel caso delle aree saheliane. Durante il periodo coloniale, all’interno di ogni impero, come ad esempio nel caso dell’Aof francese e dell’Aef, questa flessibilità veniva talvolta mantenuta tra le diverse suddivisioni amministrative. Durante l’indipendenza, questi confini furono brutalmente congelati dalla costituzione degli Stati-nazione. Gli usi condivisi e le porosità sono scomparsi, dando luogo a situazioni che hanno portato a crisi, comprese quelle sopra menzionate. Tuttavia, dagli anni 90, c’è stata una diminuzione di questo tipo di conflitto.
Ma se guardiamo con attenzione ai sette principali conflitti interstatali che l’Africa ha vissuto dal 1962, ce ne sono solo due negli ultimi vent’anni di questo genere. Entrambi riguardano l’Eritrea. Questo Stato è diventato indipendente dall’Etiopia nel 1993 dopo trentadue anni di rivolta per l’indipendenza. Questi conflitti sono interessanti da studiare perché mostrano il legame tra l’affermazione di un nuovo Stato e la definizione del suo territorio.
Entriamo nello specifico. L’Eritrea, colonia italiana dal 1892, era stata infatti riunita con l’Etiopia dopo la seconda guerra mondiale, prima in un quadro federale o associativo, poi per annessione di fatto. La guerra del 1998 è legata alle rivendicazioni di confine intorno alla regione di Badmé, rivendicate dall’Eritrea, che ha così messo in discussione il confine definito nel 1993. Il 6 maggio 1998, le truppe eritree sono entrate nella regione. Nel 2000 le ostilità sono cessate ma le tensioni sono rimaste. L’Etiopia ottiene una vittoria militare e occupa parte dell’Eritrea. Questo conflitto è stato accompagnato dalla formazione di due sistemi di alleanze: l’Eritrea si è avvicinata al Sudan e, sebbene il suo presidente fosse cristiano, come il 50% della popolazione, ha stretto legami con il movimento separatista del Fronte di liberazione dall’Oromia, regione etiope, abbastanza vicina ai movimenti islamisti. Nel 2008, è stato tra l’Eritrea e Gibuti che è scoppiato un conflitto sulla sovranità su Capo Douméra. Gibuti riesce finalmente a mantenere le sue posizioni con la mediazione del Qatar. Così, gli Stati africani stanno conducendo delle vere e proprie politiche ispirate alla realpolitik, in contrasto con l’immagine di un fallimento statale generalizzato e l’idea di un’Africa in cui i conflitti non sarebbero altro che guerre civili con prevalenti caratteri etnico -religioso.
Conflitti intra-statali e realtà locali
Analizzando i conflitti interni la dimensione politica si sovrappone spesso a quella dei popoli e delle religioni, ma anche agli obiettivi di reti e interessi economici, locali o internazionali. Ma, per essere compreso appieno, un conflitto intra-statale in Africa dovrebbe essere interpretato in termini di realtà locali.
In effetti, alcuni di loro sono collegati a una sfida al potere da parte di un insieme di gruppi che possono imbracciare le armi. Questo è il paradigma dei conflitti africani al tempo della Guerra Fredda, con movimenti di obbedienza marxista che agirono in Angola e Mozambico, così come in Etiopia, prima di riuscire a prendere il potere nel 1975.
I conflitti e la successione di potere
In altri casi il problema della successione di presidenti fondatori molto longevi è stata anche fonte di conflitti. Questo è stato il caso in Costa d’Avorio dopo la morte di Félix Houphouët-Boigny nel 1993, nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc, ex Zaire) dopo che Mobutu fu estromesso dal potere nel maggio 1997 prima di morire in esilio nel mese di settembre dello stesso anno. In questi due casi, i conflitti successivi (in Costa d’Avorio, crisi politico-militari dal 2002 al 2007 e dal 2010 al 2011 e la guerra civile nella Rdc dal 1998 al 2003 e poi la guerra del Kivu dal 2004 al 2009) possono essere interpretati – ma in modo errato – solo se si rivolge l’attenzione esclusivamente alla dimensione etnica o religiosa in Costa d’Avorio; se al contrario si rivolge la propria attenzione anche anche agli sconvolgimenti determinati da una transizione democratica a lungo termine, allora si ha la possibilità di una lettura più fedele alla realtà. Nella Repubblica Centrafricana, un controverso presidente, Michel Djotodia, nominato dal Consiglio nazionale di transizione il 25 marzo 2013 in seguito al rovesciamento di François Bozizé, decide di appoggiarsi alla Seleka e getta il Paese nel caos.
Conflitti e ragioni etniche
Ma anche la logica dei popoli e delle etnie può svolgere un ruolo in questi conflitti. Il genocidio ruandese, in cui quasi 800.000 tutsi furono messi a morte dagli hutu, ebbe il suo triste culmine dal 7 maggio 1994 al luglio dello stesso anno. Questa è stata non solo una delle componenti del conflitto ivoriano ma è stato anche uno dei principali fatti del conflitto centrafricano, con i musulmani Seleka provenienti principalmente dai pastori nel nord del paese ma anche nel sud del Ciad, a differenza delle popolazioni del centro del paese che praticano l’agricoltura. In Sudan, la situazione di discriminazione contro le popolazioni subsahariane nel sud del Paese da parte degli arabi nel nord del Paese che esercitavano il potere li ha portate a ribellarsi.
Dopo l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011, nel 2013 è scoppiata una guerra civile fratricida tra i Dinka e i Nuers. Ma la questione è anche politica, alcuni appoggiano Salva Kiir, presidente della Repubblica, altri, l’ex vicepresidente Riek Machar, anche religioso poiché alcuni sono cattolici, altri protestanti. La questione dei popoli del deserto solleva anche la questione di uno spazio transfrontaliero.
La causa religiosa dei conflitti africani
Un altra causa dei conflitti è relativa alla dimensione religiosa. In molte aree in cui sono in gioco le logiche etniche, vi sono sono anche le logiche religiose, che rappresenta un notevole vantaggio per l’estremismo religioso e in particolare per i movimenti jihadisti.
In Costa d’Avorio, la guerra civile tra forze presidenziali e ribelli si è mobilitata, certamente con un numero infinito di sfumature ed eccezioni, ma principalmente per ragioni religiose: i gruppi etnici cristiani nel sud si sono mobilitati contro gruppi etnici prevalentemente musulmani nel nord anche se la violenza non fu mai al centro della retorica di ogni campo che, al contrario, pretendeva di incarnare l’unità nazionale. Per esempio la questione della “ivoirité”, cioè la questione nazionale, era infatti centrale.
Ma anche in presenza della omogeneità religiosa questa non ha impedito alla Somalia, 99,9% musulmana, di dividersi in tre entità, né alla Rdc, 85% cristiana, di vivere di conflitti fratricidi. Allo stesso modo, se gli islamisti hanno proclamato la secessione nel nord del Mali nell’aprile 2012, questa si basava sul desiderio di indipendenza dei Tuareg, una parte dei quali si è radunata alle forze di Ansar Dine, Aqim o di Mujao. Per alcuni, l’appartenenza religiosa è solo un modo per mascherare le etnie.
Dagli anni 90, le reti di Al Qaida hanno reso l’Africa una terra di combattimento contro l’Occidente, con gli attacchi a Nairobi e Dar-es-Salaam. Dal 2013 numerosi movimenti islamisti hanno promesso fedeltà al gruppo dello Stato islamico, determinato a territorializzare le proprie azioni con l’obiettivo principale di combattere non solo contro gli occidentali, ma anche contro i cristiani considerati solidali con gli occidentali. Questo spiega il grappolo di conflitti di questo tipo che attraversa il continente ai suoi margini saheliani.
Ma allora l’Africa è teatro di uno scontro tra islam e cristianesimo? Nel nord del Mali, le minoranze cristiane sono perseguitate durante l’occupazione da parte delle forze islamiste nel 2012-2013. In Nigeria, la setta Boko Haram sta aumentando il numero di attacchi e rapimenti. Gli Shabaab somali compiono regolarmente incursioni in Kenya, spesso uccidendo cristiani in modo mirato, come nella presa di ostaggi del centro commerciale Westgate a Nairobi il 21 settembre 2013 o nell’attacco all’Università di Garissa il 2 aprile 2015. C’è però una certa asimmetria che impedisce di parlare di guerre di religione, perché, ad eccezione degli anti-Balaka della Repubblica Centrafricana, non sono le milizie cristiane a rispondere alla violenza jihadista, ma forze statali regolari, comprese quelle di stati prevalentemente musulmani come il Mali, e la comunità internazionale.