Il coronavirus ha colpito anche il Medio Oriente, aggravando i già seri problemi che affliggono molti Paesi, dalle guerre in Siria e Yemen, alle epurazioni all’interno del regime saudita, alla crisi economica e sociale del Libano, alle divisioni interne dell’Iraq con la difficoltà di costituire un governo, difficoltà che affronta da tempo anche Israele. La pandemia ha colpito, con particolare gravità, i due Paesi più popolosi della regione, Iran e Turchia, entrambi in un momento non facile della loro storia.
La grave situazione sanitaria in Iran è aggravata dalle sanzioni internazionali, e ulteriormente appesantite dal crollo del prezzo del petrolio, ma non sono tuttavia cessati gli scontri con gli Stati Uniti, come dimostrano le reciproche minacce di attaccare le navi avversarie nel Golfo Persico. Il Paese è scosso dalle proteste per la situazione di crisi e dalla conflittualità tra moderati e conservatori nei vertici del regime. La chiusura di diversi luoghi di culto per contrastare la diffusione del contagio ha, d’altro canto, scatenato violente reazioni da parte dei fondamentalisti. Il regime degli ayatollah sta reagendo con la chiamata alla lotta contro il Grande Satana, gli Usa, cui potrebbe essere attribuito anche il coronavirus. Teheran deve rimanere invece molto prudente verso Pechino, acquirente delle sue scarse vendite di petrolio e sempre più presente in Iran.
Per quanto riguarda la Turchia, Recep Erdogan sembra deciso a continuare la sua strategia di espansione, non a caso definita “neo-ottomana”, nelle due storiche aree di azione: il Medio Oriente e il Mediterraneo.
In Medio Oriente l’espansione turca non si presenta facile, in quanto i Paesi arabi della regione non sembrano particolarmente propensi a tornare sotto il dominio turco. Erdogan ha perciò deciso di manovrare all’interno dei molteplici conflitti dell’area approfittando di ogni occasione, come con l’appoggio sotterraneo all’Isis. O impiegando milizie jihadiste nelle zone occupate di Siria e Iraq, dove però deve fare attenzione a non entrare in collisione con la Russia, con la quale i rapporti si mantengono molto oscillanti.
L’attuale politica della Turchia ha comunque due fattori costanti, di cui il primo è l’appoggio dell’islamista Erdogan alla Fratellanza musulmana, che lo porta a sostenere il Qatar contro i sauditi e Hamas contro l’antico alleato Israele. L’altro elemento è rappresentato dai curdi e dai loro tentativi di costruire un proprio Stato. L’ampia autonomia, se non proprio indipendenza, raggiunta dai curdi nel Kurdistan iracheno e nella Rojava siriana preoccupa parecchio Ankara, rendendola pronta ad ogni intervento che eviti un risorgere dell’indipendentismo tra la forte minoranza curda in Turchia (circa il 20% della popolazione). In ciò sembra facilitata dalla ondeggiante politica americana, come il sostanziale ritiro dell’appoggio ai curdi di fronte agli attacchi turchi.
Nel Mediterraneo, l’espansionismo turco sembra trovare meno ostacoli, nonostante anche qui secoli di lotta contro l’Impero Ottomano dovrebbero creare qualche allarme. L’anno prossimo ricorreranno 450 anni dalla vittoria cristiana a Lepanto e, sull’altro versante, dalla conquista ottomana di Cipro, isola che è tornata al centro della politica espansionistica turca, già prima dell’avvento di Erdogan. Nel 1974, l’esercito turco ha invaso la parte nord dell’isola, da allora presidiata dai militari di Ankara, con la proclamazione nel 1983 della Repubblica Turca di Cipro del Nord, riconosciuta solo dalla Turchia.
È questa la base “giuridica”, le virgolette sono necessarie, sulla quale Erdogan ha fondato la estensione delle ZEE (zone economiche esclusive) turche attorno a Cipro, appropriandosi delle concessioni di esplorazione petrolifera affidate da Cipro a Eni e Total. Né le diffuse proteste a livello internazionale, né l’invio di navi militari francesi hanno fatto recedere Erdogan dai suoi propositi, malgrado le reazioni di altri Paesi minacciati dalle sue azioni, quali Egitto e Israele. Entrambi sono infatti interessati allo sfruttamento di giacimenti nelle loro aree di competenza, ora messe a rischio dagli interventi turchi.
In questa strategia si inserisce logicamente anche l’intervento in Libia, con il sostegno armato al Governo di accordo nazionale, guidato da Serraj, con il quale ha firmato un accordo relativo alle ZEE di fronte alle coste libiche. Il che aumenta le preoccupazioni del regime del Cairo, che sostiene invece le milizie del generale Haftar, insieme a Russia e Emirati Arabi Uniti. L’Egitto è anche preoccupato dall’influenza che i Fratelli musulmani stanno esercitando in Tripolitania: non a caso, insieme alla Turchia tra i sostenitori di Serraj c’è il Qatar.
Non stupisce il silenzio di una Unione Europea sostanzialmente sotto il ricatto migranti, che Erdogan sa usare molto attivamente, sfruttando anche le divisioni interne alla Ue. Né stupisce più che tanto il silenzio della Nato, di cui la Turchia fa tuttora parte: in fondo, la situazione in Libia è stata determinata dall’attacco di due Stati dell’Ue, Francia e Regno Unito, con il sostegno della Nato. Perché la Turchia dovrebbe rimanere fuori dalla spartizione dei risultati?