Fu Charles de Gaulle (1890-1970) a escogitare il sistema francese di influenza sulle ex colonie africane. De Gaulle aveva guidato il governo francese in esilio durante la seconda guerra mondiale ed era diventato l’imponente statista della politica nazionale postbellica, assumendo la carica di presidente nel 1958, mentre la Francia era in preda al caos e doveva affrontare la rivolta in Algeria. Fu lui a garantire all’Algeria la sovranità. Ai possedimenti francesi in Africa occidentale offrì un accordo che i leader accettarono quasi all’unanimità e in base al quale, dopo l’indipendenza, avrebbero mantenuto la protezione francese al prezzo di preservare gli interessi economici francesi e lasciare che Parigi dettasse la politica estera e difensiva.
La presa di de Gaulle sulla crescente banda di tiranni post-indipendenza dell’Africa francofona era tale che, alla sua morte nel 1970, Jean-Bédel Bokassa, il sedicente imperatore della Repubblica Centroafricana, singhiozzò al funerale di un uomo che chiamava “papà”.
Il sistema francese in Africa, perpetuato principalmente dai gollisti dopo la morte del loro leader, sfociò in una rete di contratti legati a materie prime, fondi neri e corruzione che il suo soprannome ben sintetizza. A prima vista, “Françafrique” sembra un innocuo amalgama di France e Afrique, suggerendo due popoli uniti da una causa comune. Nella sua pronuncia, però, evoca qualcosa di più vicino alla verità: France à fric, un gioco di parole con il termine francese per “contante”, che potrebbe essere liberamente tradotto come “bancomat della Francia”.
Ai tempi d’oro, la Françafrique costituiva in effetti un accordo reciprocamente vantaggioso, anche se il vantaggio non toccava alla popolazione in generale ma agli autocrati africani e ai mandarini francesi che lo gestivano. Alla fine degli anni Novanta, un’infaticabile magistrata norvegese naturalizzata francese di nome Eva Joly seguì la pista di alcune transazioni poco chiare e scoprì un enorme canale nascosto di soldi sporchi che correva attraverso il braccio africano dell’Elf, la compagnia petrolifera statale francese. “Mi sembrò di penetrare un mondo sconosciuto, con delle leggi tutte sue”, disse Joly, che quando cominciò a scavare più a fondo iniziò anche a ricevere minacce di morte.
La divisione della Elf in Gabon era il fulcro di questo mondo sconosciuto. Usava i proventi del petrolio per pagare tangenti ai politici francesi, comprare appartamenti di lusso a Parigi e rimpinguare il patrimonio di Omar Bongo, sotto il cui governo i gabonesi pativano standard di vita disastrosi mentre i loro governanti erano famosi per aver reso il paese il più grande consumatore pro capite di champagne al mondo. E i tentacoli della Elf si allungavano oltre la sfera francofona, arrivando al greggio di tutta l’Africa. Nel 2000 un ex dirigente della Elf testimoniò che uno dei beneficiari dei fondi neri della società era l’angolano José Eduardo dos Santos. Le indagini di Joly scossero l’establishment francese, rivelando uno Stato-ombra paragonabile a quello di qualsiasi regime africano per la prontezza a scambiare l’accesso alle materie prime con influenze illecite e benefici personali. La Elf fu privatizzata e le catacombe della sua corruzione furono sigillate. Decine di dipendenti dell’azienda finirono in manette. Politici francesi, tra cui Nicolas Sarkozy, dichiararono che l’era della Françafrique era finita, e l’influenza diretta della Francia su molte delle sue ex colonie in effetti diminuì.
La Total, l’erede privatizzata della Elf, che appartiene alla categoria di ExxonMobil, BP, Shell e altri giganti dell’industria, vanta alcune delle più interessanti concessioni petrolifere in Angola e Nigeria, i due principali produttori di greggio del continente, e continua a estrarre petrolio in Gabon. In Niger, dove la Areva cominciò le operazioni due anni prima dell’indipendenza del 1960, la Francia ha conservato il suo interesse strategico nell’uranio attraverso sistemi che, pur essendo legali in senso stretto, non risultano particolarmente equi. I contratti della Areva non sono di dominio pubblico, ma giornalisti della Reuters hanno messo le mani sui suoi più recenti accordi decennali, validi fino alla fine del 2013.
I documenti mostravano che la Areva era esentata dal pagamento dei diritti sia sull’attrezzatura che importava per le estrazioni sia sull’uranio che esportava. La royalty, un tipo particolare di pagamento che le società minerarie fanno ai governi in base alla quantità di minerali estratti, era, sull’uranio, il 5,5 per cento, molto al di sotto delle percentuali praticate da altri paesi più ricchi e fissata da una clausola che proteggeva l’azienda da qualsiasi innalzamento della percentuale in caso di nuove leggi. L’industria mineraria difende questo tipo di contratti, che le tornano utili per portare avanti investimenti a lungo termine.
La Francia consuma più uranio di qualsiasi altro paese a parte gli Stati Uniti. Le centrali nucleari forniscono tre quarti dell’elettricità nazionale. La Areva, il gruppo di energia atomica statale francese, spadroneggiava nei territori del Niger settentrionale sotto cui si trovano i più ricchi giacimenti di uranio del pianeta. La Areva trae quasi un terzo del suo uranio dal Niger, mentre il resto viene dal Canada e dal Kazakistan. È la più grande società specializzata in energia nucleare al mondo, e il suo fatturato annuale equivale al doppio del prodotto interno lordo del Niger. Ma il dittatore nigerino Mamadou Tandja, che non intendeva più accettare il monopolio della Areva che si dice abbia segretamente finanziato i ribelli tuareg del Nord-Tandja, avviò trattative con la Cina che fu ben lieta di soppiantare la Francia. Infatti in cambio del permesso di estrarre uranio e delle concessioni per attingere alle riserve ancora intatte di petrolio, la Cina fornì a Tandja i mezzi per assecondare la sua vena autoritaria. Secondo le analisi di Tom Burgis, dei 56 milioni di dollari che la Sino-U, risposta cinese alla Areva, aveva pagato per la sua licenza di estrarre uranio in Niger, 47 furono spesi nelle armi per schiacciare i ribelli tuareg. Una somma ben più cospicua – 300 milioni di dollari – arrivò in forma di pagamento per la firma quando Tandja concesse alla China National Petroleum Corporation, la seconda, mastodontica compagnia petrolifera cinese insieme alla Sinopec, i diritti per sfruttare un blocco petrolifero che le compagnie occidentali avevano rifiutato. Durante il decennio in cui Tandja fu al potere, come un’inchiesta avrebbe in seguito scoperto, 180 milioni di dollari svanirono dalle casse dello Stato grazie alla malversazione e alla corruzione.
Vediamo di fare alcune considerazioni conclusive. L’Africa – come l’America latina – è stata oggetto della volontà predatoria ispano-portoghese già a partire dalla fine del 1400, come dimostra la presenza portoghese in Congo. I legami o gli intrecci che dir si voglia tra petrolio, uranio, dittature militari in Africa, tangenti e colpi di Stato è un intreccio costante nella storia dell’Africa di questi ultimi cinquant’anni. E infine l’ultima considerazione: lo Stato parallelo o Deep State – come quello rivelato dalla magistrata Eva Joly – corre parallelo a quello legale. Ieri come oggi. Solo studiando gli intrecci tra questi due organismi e cioè tra lo Stato parallelo e lo Stato ufficiale è possibile comprendere la dinamica effettiva del potere in tutto il suo cinismo e la sua brutalità, dinamica a causa della quale la vita umana – come quella del popolo africano – è solo carne da macello o merce di scambio. Ieri come oggi.
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