In numerosi articoli presentati su queste pagine abbiamo sottolineato la rilevanza della dottrina della sicurezza nazionale nella destabilizzazione delle istituzioni politiche in America latina e abbiamo altresì sottolineato come questa dottrina sia da ricondurre strettamente a quella elaborata in Francia. La morte di Henry Kissinger ha riportato inevitabilmente alla memoria il suo ruolo – ma soprattutto quello degli Stati Uniti – giocato nella destabilizzazione della gran parte dei governi dell’America latina, destabilizzazione che ha determinato veri e propri crimini contro l’umanità.
Giustizia per i crimini di massa in America latina
Nella storia della giustizia internazionale, l’America latina rappresenta un caso peculiare. Sebbene non siano stati istituiti tribunali internazionali appositi per processare i crimini di massa commessi in questa regione, il ventunesimo secolo ha visto numerosi tentativi di perseguire questi crimini attraverso altre vie legali.
L’arresto il 16 ottobre 1998 del generale cileno Augusto Pinochet a Londra, eseguito su mandato del giudice spagnolo Baltasar Garzón per crimini contro l’umanità, rappresenta un momento cruciale in questa ricerca di giustizia. Questo evento ha aperto la strada alla ridefinizione di crimini imprescrittibili come il genocidio e i crimini contro l’umanità, e ha dimostrato l’applicabilità pratica del principio di giurisdizione universale. Secondo questo principio, un crimine può essere perseguito da qualsiasi Stato, indipendentemente dalla nazionalità dell’autore o del luogo di commissione del crimine.
L’arresto di Pinochet, avvenuto solo tre mesi dopo la firma dello Statuto di Roma per la creazione della Corte Penale Internazionale, non è una coincidenza, ma piuttosto riflette un’epoca di sensibilità crescente alle gravi violazioni dei diritti umani e la possibilità di affrontarle attraverso la giustizia internazionale.
Pinochet, che poco tempo prima dell’arresto aveva lasciato il comando delle forze armate cilene per diventare senatore a vita, si trovò al centro di una battaglia legale che durò un anno e mezzo. Rientrato in Cile nel marzo 2000 per motivi di salute, fu nuovamente arrestato e morì nel 2006, sempre agli arresti domiciliari. La legge di amnistia da lui stesso promulgata nel 1978 aveva complicato notevolmente il percorso giudiziario e la possibilità di condannare i responsabili di violazioni dei diritti umani su larga scala.
In molti Paesi latinoamericani come Bolivia, Argentina, Uruguay, Brasile, Cile, Paraguay e Guatemala, che emersero dalle dittature tra gli anni 80 e 90, i militari riuscirono a imporre leggi di amnistia prima di concedere il ritorno alla democrazia. Queste leggi impedirono ai militari di finire di fronte a un tribunale per i crimini commessi.
L’iniziativa del giudice Garzón ha messo in luce la giurisdizione universale, una norma conosciuta ma poco utilizzata, che permette a uno Stato di perseguire crimini internazionali indipendentemente dalla nazionalità delle persone coinvolte, dal luogo di commissione del crimine o dalla nazionalità delle vittime. Nel caso specifico di Garzón, si trattava di cittadini spagnoli assassinati durante la repressione cilena post-golpe del 1973.
Questa azione giuridica ha riaperto discussioni sui crimini commessi durante le dittature latinoamericane, che, benché concentrati negli anni 70 e 80, hanno radici in eventi storici molto più lontani. Già nel corso dell’Ottocento Paesi come Argentina, Cile, Bolivia e Perù avevano perpetrato violenze e massacri contro le popolazioni indigene. Questa tendenza si è protratta nel XX secolo, con attacchi contro gruppi indigeni come gli Yanomani in Brasile, gli Ache in Paraguay, gli Wichi e Tufa in Argentina, e i Mapuche in Cile, spesso a causa dell’espropriazione delle loro terre per lo sfruttamento delle risorse naturali da parte di Stati o compagnie private internazionali.
In sintesi, l’arresto di Pinochet e le azioni legali successive hanno segnato un punto di svolta nell’approccio alla giustizia per i crimini di massa in America latina, sfidando le leggi di amnistia e applicando il principio di giurisdizione universale.
Il genocidio in Guatemala e il processo a Ríos Montt
Dall’epoca della Seconda guerra mondiale, la politica estera degli Stati Uniti, orientata dalla dottrina della sicurezza nazionale, ha avuto un impatto determinante sui governi dell’America latina. Questo approccio ha influenzato profondamente il corso degli eventi politici in regioni come il Guatemala, dove si sono sviluppate le cosiddette “guerre sporche” – una serie di conflitti interni caratterizzati da violenze e repressioni contro gruppi identificati come nemici politici o ideologici.
Uno degli esempi più tragici è il colpo di Stato militare in Guatemala, sponsorizzato dagli Stati Uniti nel 1954, che ha dato inizio a una lunga e violenta guerra civile durata 36 anni. Le forze militari e paramilitari dello Stato, nel corso di questo conflitto, hanno ucciso o fatto scomparire oltre 200mila persone, la maggior parte delle quali appartenenti a comunità, villaggi e gruppi indigeni.
Le azioni di contro-guerriglia iniziarono nel Paese fin dagli anni 60, intensificandosi come risposta a attentati, rapimenti e omicidi perpetrati da gruppi ribelli. In particolare, vi furono distruzioni di interi villaggi in aree rurali, con l’obiettivo di dissuadere la popolazione civile dal supportare i guerriglieri. Tuttavia, queste azioni spesso sortirono l’effetto opposto, incentivando l’adesione alla guerriglia.
La situazione raggiunse un culmine nel 1981, in risposta a una lunga crisi seguita al terremoto del 1976. Il governo, utilizzando gli aiuti internazionali per rafforzare la corruzione e il proprio potere, si trovò a fronteggiare una guerriglia in crescita che arrivò a controllare quasi metà delle province guatemalteche.
Nel marzo 1982, il generale Efraín Ríos Montt, con l’assistenza dei consiglieri americani, depose Lucas García e diede inizio a una brutale campagna di violenza. In soli otto mesi, 75mila persone furono massacrate, con un terzo della popolazione della zona di Ixil sterminata. Questa fase fu caratterizzata da un vasto spostamento forzato di persone e da una politica di terra bruciata che devastò risorse e proprietà di migliaia di persone.
La situazione cambiò nel 1996, quando al governo tornarono i civili e fu firmato un accordo di pace con i guerriglieri rimasti. Sotto l’egida della missione delle Nazioni Unite in Guatemala, fu istituita la Commissione per il Chiarimento Storico (Comisión para el Esclarecimiento histórico, CEH). Nel 1999, la Commissione presentò una relazione di dodici volumi che confermava il genocidio commesso tra il 1981 e il 1983 contro i gruppi di popolazione Maya, identificati dall’esercito come nemici interni.
Nel marzo 2013, più di trent’anni dopo questi eventi, iniziò il processo contro Ríos Montt presso la Corte Suprema del Guatemala. Il 10 maggio, Montt fu condannato a ottant’anni di carcere, cinquanta per genocidio e trenta per crimini contro l’umanità, tutti commessi nei confronti dei Maya Ixil. Tuttavia, dieci giorni dopo, la Corte costituzionale sospese il procedimento per un errore tecnico. Dopo vari rinvii e ostacoli legali, il processo riprese nell’ottobre 2017, ma il 1° aprile 2018 Ríos Montt morì per un attacco di cuore, condannato ma senza aver scontato la sua pena.
La ridefinizione del genocidio nei tribunali argentini
Nel contesto delle violenze perpetrare durante la dittatura militare in Argentina (1974-1983), caratterizzata dalla scomparsa di un numero che va dalle 20mila alle 30mila persone (i desaparecidos) e l’esistenza di circa cinquecento campi di detenzione e concentramento, si è sviluppata una notevole discussione giuridica sulla natura del genocidio. A differenza di altri casi di genocidio, in Argentina le questioni etniche e religiose non hanno avuto un ruolo centrale; piuttosto, si trattava di una persecuzione basata su convinzioni politiche.
Il Tribunale federale criminale di La Plata ha assunto un ruolo di primo piano in questa discussione. Nel settembre 2006, il tribunale ha condannato Osvaldo Etchecolatz, ex dirigente della polizia di Buenos Aires, per crimini contro l’umanità, qualificando tali crimini come parte di un genocidio. Questa è stata la prima sentenza che ha interpretato le azioni della giunta militare argentina, la quale aveva definito la propria campagna repressiva come un “Processo di riorganizzazione nazionale”.
Il punto cruciale di questa sentenza è stata l’interpretazione del genocidio come la distruzione parziale di un gruppo nazionale. Il tribunale ha riconosciuto che, sebbene le vittime fossero cittadini argentini, lo stesso Paese di origine dei loro persecutori, l’intento era di distruggere una parte specifica della popolazione: quella composta da individui che non si conformavano al modello di cittadinanza voluto dal regime. Questa interpretazione ha portato alla conclusione che le azioni della giunta militare non fossero semplicemente una serie di crimini isolati, ma piuttosto una campagna sistematica di distruzione che poteva essere qualificata come genocidio.
Questa sentenza e altre simili hanno generato un ampio dibattito tra giuristi e studiosi. Mentre alcuni sostenevano che le vittime fossero state selezionate individualmente per le loro convinzioni politiche e non per l’appartenenza a un gruppo specifico, altri hanno evidenziato che la sistematicità delle persecuzioni contro militanti di sindacati, organizzazioni studentesche o di quartiere poteva essere vista come un attacco contro un gruppo distintivo di “dissidenti politici” all’interno della nazione argentina.
Questa riconcettualizzazione del genocidio nei tribunali argentini ha offerto un nuovo approccio alla comprensione e alla persecuzione dei crimini contro l’umanità, estendendo il significato tradizionale di genocidio oltre i confini etnici e religiosi.
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