Un arco di crisi attraversa il Mediterraneo. Salienti che uniscono tre continenti, dal Mar Mediterraneo al Mar Rosso e al Mar Nero. Mari uniti attraverso quei colli di bottiglia che sono gli stretti di Suez, Bab el Mandeb, Dardanelli. Arco di crisi che arriva senza immaginazione all’Oceano Indiano, campo di gioco di una partita che vede affrontarsi Stati Uniti, Russia, Cina e con loro Iran, Turchia, Arabia, Egitto e i piccoli, ormai, Stati europei in attesa di Godot, leggi esercito europeo.
Mediterraneo centro dell’Eurasia, del mondo. Lago che unisce nella tragedia le economie portanti del pianeta, le superpotenze del mondo, in ascesa, in declino o che si credono tali.
Così guerre lontane come i conflitti russo-ucraino, israelo-palestinese, la Libia, la Siria, la guerra civile in Yemen si trovano collegati e interdipendenti e non in modo casuale. Scontri che da regionali si trasformano, per il peso degli attori coinvolti, in una lotta globale per il predominio. Guerre limitate, e speriamo che così rimangano, ma i cui esiti possono cambiare il corso degli eventi futuri e gli equilibri del nuovo (dis)ordine mondiale.
Guerre d’altronde diverse tra loro. I fatti di Gaza scatenati dalla proditoria azione di Hamas il 7 ottobre sembrano essere in una situazione di attesa, tra risoluzioni dell’impotente ONU, miliziani di Hamas mimetizzati tra la popolazione e reazione durissima dell’esercito israeliano. Ma ancora non è chiaro cosa Tel Aviv voglia fare “dopo”. Né se l’obiettivo dichiarato della eradicazione di Hamas sarà raggiunto. Chi governerà Gaza? Israele, l’ANP, una forza di transizione araba? E chi pagherà la ricostruzione che durerà anni? E poi quale soluzione politica per i palestinesi? E chi salirà al potere in Israele?
Forti sono le voci di dissenso contro Netanyahu, accusato di aver sbagliato tutto. Di aver sottovalutato Hamas permettendole di ricevere i fondi via Egitto dal Qatar, di aver favorito i coloni in Cisgiordania, esasperando i rapporti con la già screditata Autorità Palestinese, di aver reso cieco e sordo l’esercito e i servizi segreti, nonostante gli allarmi provenienti dagli addetti alla sicurezza. Impressionante la ricostruzione del New York Times sulle deficienze dell’intelligence, le negligenze dei vertici militari, accusati di non aver prestato ascolto agli allarmi che provenivano dagli “occhi” dell’esercito, dalle ragazze soldato tatzpitaniyot, le giovani donne che controllano h24 i monitor su cui passano i video di sorveglianza lungo la Striscia di Gaza. Ma si sa, i servizi poco possono quando la politica non vuole ascoltare. Ne sanno qualcosa gli Stati Uniti con l’11 settembre, quando non presero sul serio i numerosi allarmi precedenti all’attentato.
Ma le due guerre principali, quella combattuta in Ucraina e il conflitto arabo-palestinese, sono assolutamente diverse. Se infatti l’andamento futuro dello scontro in Medio Oriente poco ci dice sull’Ucraina; gli esiti della guerra tra Mosca e Kiev avranno sicuramente effetti anche sul conflitto israelo-palestinese e sugli equilibri in tutta l’area. Perché alla fine a scontrarsi con Mosca non è l’Ucraina, ma gli Usa e la Nato.
La guerra tra Hamas ed esercito israeliano presenta, è vero, aspetti difficili. In primo luogo, la molteplicità degli attori in gioco con diversi interessi aumenta il rischio di incidenti, di effetti non previsti, tanto più che ben due Stati o hanno la bomba atomica o sono vicini ad averla, come l’Iran. In secondo luogo, quel conflitto ha la valenza culturale e politica di uno scontro di civiltà, tesi che se si avverasse avrebbe la prerogativa di non rimanere confinata di là dal mare, ma di realizzarsi immediatamente in Europa, a casa nostra, visti i numeri dell’immigrazione arabo-musulmana, con la conseguenza di accendere continui focolai di tensioni al limite della sommossa. In terzo luogo, la questione palestinese è una ferita aperta che, se non chiusa, è pronta a riacutizzarsi ad ogni refolo di vento.
Ma Hamas e i palestinesi, di per sé non sono una minaccia esistenziale allo Stato di Israele. Tra le due forze non c’è confronto, e lo si vede dall’andamento attuale del conflitto. I miliziani di Hamas sono, erano, 30mila. Non è un esercito, non ha artiglieria né carri armati, né tanto meno dispone di aviazione. Certo, ha i missili, ma non bombardieri, caccia e quant’altro. E infatti, come arma privilegiata, ricorre al terrorismo più bestiale. Una volta però che Israele ha deciso di intraprendere una guerra totale, gli esiti da un punto di vista militare sono scontati. Vi può essere solo una differenza di grado.
Anche da un punto di vista politico-strategico, le posizioni dei vari attori appaiono chiare. A parte il Qatar e il sostegno della Turchia, o per lo meno di una parte, al resto dei vicini, al di là delle parole, poco importa di Hamas. Rimane la grande incognita dell’Iran, che attraverso un uso sapiente di minacce e azioni militari dei suoi alleati, dall’Hezbollah libanese agli Houti yemeniti, sembra – ma tutto può succedere, troppe le variabili – più interessato ad aumentare il suo potere regionale che a scatenare una guerra.
Diverso il caso della guerra in Ucraina. Se la Russia dovesse uscire rafforzata dal conflitto, cioè non sconfitta – quando Biden è responsabile di aver alzato il prezzo dichiarando che Putin non poteva rimanere al potere –, il suo peso in sulla bilancia dei rapporti di forza mondiali cambierebbe in modo notevole e sarebbe spendibile immediatamente sul quadrante mediorientale. Un’area dove Mosca ha già una rilevante presenza militare, dalla Siria alla Libia, e dove ha stretto ottime alleanze dai tempi dell’Unione Sovietica.
Vero è che dopo il crollo dell’Unione Sovietica, Mosca si era riavvicinata a Israele, come dimostrato dal via libera all’emigrazione russa, dalla linea rossa stabilita durante la guerra in Siria, e dalle cautele di Tel Aviv nei confronti di Putin nel caso dell’invasione dell’Ucraina. Ma vero è anche che adesso Mosca, con Pechino, è la paladina dell’ex terzo mondo, del Sud del mondo, degli ex non allineati. E il Medio oriente, la questione israelo-palestinese è una delle tante tessere da inserire nel puzzle del Risiko mondiale.
Approfittando ancora una volta di un enorme errore di calcolo degli Stati Uniti, troppo sicuri di sé e delle presunte debolezze della Russia, Putin potrebbe strizzare un occhio verso Teheran, tener impegnati gli Usa in Medio oriente e la Nato sul fronte europeo, dove la nuova guerra fredda richiederebbe un nuovo riposizionamento di truppe, armamenti e soldi (tanti) americani in Europa. E così gli Stati Uniti si troverebbero impegnati su tre fronti. In Europa contro la Russia, in Medio Oriente a difesa di Israele contro l’Iran, nel Pacifico a difesa di Taiwan contro la Cina. Impegni molteplici e contemporanei, impossibili già adesso da tenere.
Ma lo scenario delineato è solo sulla carta. Per adesso nella realtà, vi è che Mosca ha stretto un accordo per fornire all’Iran gli aerei Sukhoi 35, e il viaggio di Putin in Arabia e negli Emirati a dicembre. E che la Cina ha mediato il riavvicinamento tra Iran e Arabia. Come sono altrettanti fatti che le sanzioni non stanno funzionando, che l’economia russa è data in crescita del 3%, che la Cina stia rifornendo Mosca di migliaia di mezzi civili, a doppio uso, come i camion. Vero è, lo dicono fonti occidentali non russe come il ministero della Difesa estone, che gli ucraini sembra abbiano perso qualcosa come 150mila uomini, numero forse uguale a quello delle perdite russe ma con una popolazione ormai ridotta a 30 milioni. Che Mosca ha approntato l’invio di altri 150mila uomini sul fronte, che l’ex Armata rossa può addestrare ogni 6 mesi 130mila soldati. Che l’Ucraina né ha le riserve, né può addestrarli adeguatamente a casa, e che all’esercito ucraino è interdetta una guerra di manovra e la capacità di muoversi a raggruppamenti superiori alla compagnia pena la distruzione immediata, come dimostrato dagli eventi di questa estate. Ed è noto che l’artiglieria ucraina, superiore per tecnologia a quella russa, non regge, al contrario di quella, l’usura terribile di questa guerra, né che l’Occidente riesce a fornire quei 200mila proiettili di artiglieria al mese, mentre l’industria russa può produrre 3 milioni e mezzo di proiettili l’anno, e nel 2024 è prevista quota 4 milioni e mezzo. Vero è che la controffensiva ucraina di questa estate è stata un disastro, che forse agli ucraini conveniva utilizzare i nuovi armamenti e i rinforzi per trincerarsi, rafforzare le posizioni, in attesa dell’inverno.
Mentre adesso vero è che l’iniziativa militare, politica, e diplomatica è di nuovo in mano russa.
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