La nuova guerra del petrolio che si è aperta dall’inizio di marzo, come illustrato negli articoli di Leonardo Tirabassi e Paolo Annoni, ha al suo centro tre protagonisti, o meglio antagonisti: Arabia Saudita, Stati Uniti e Russia. All’origine dello scontro il rifiuto della Russia di approvare la proposta saudita di un ulteriore taglio nella produzione al fine di stabilizzare il livello dei prezzi. La grave situazione economica conseguente alla diffusione del coronavirus sta infatti riducendo la richiesta di petrolio e, quindi, il suo prezzo.
La posizione di Mosca sembrerebbe controproducente per un esportatore di petrolio come la Russia, ma l’obiettivo parrebbe essere la messa in difficoltà dell’industria statunitense. Gli Stati Uniti, grazie al petrolio di scisto, sono diventati i maggiori produttori e forti esportatori, con prezzi di estrazione in grado di sopportare ribassi di prezzo. Tuttavia, una parte non marginale di produttori americani è in difficoltà finanziaria e non sarebbe in grado di reggere ai ribassi. Una crisi nell’industria petrolifera avrebbe riflessi pesanti sulla prossima campagna elettorale, soprattutto negli stati produttori, per esempio in Texas, il più forte produttore e che ha votato Repubblicano nelle ultime sei elezioni presidenziali. Inoltre, il basso prezzo del petrolio danneggia i bilanci delle grandi società petrolifere proprio alla vigilia della stagione della distribuzione di dividendi a Wall Street.
Contraddittoria appare anche la reazione dell’Arabia Saudita, che ha deciso di aumentare i livelli di estrazione abbassando così il prezzo del petrolio, esattamente l’opposto di quanto precedentemente proposto. È una rappresaglia contro la Russia, approfittando del proprio prezzo di estrazione, molto basso. Tuttavia, come spiegato nell’articolo di Tirabassi, il prezzo del petrolio richiesto dal budget statale è per l’Arabia quasi il doppio di quello necessario alla Russia: un’arma quindi a doppio taglio per i sauditi. Inoltre, in questo modo Riyadh aiuta Mosca a danneggiare Washington.
In Arabia Saudita si sta conducendo un’altra guerra, questa volta interna alla famiglia regnante, meglio definibile come un clan, visto che conta più di 10mila membri. Nei giorni scorsi, il principe ereditario Mohamed bin Salman (MbS) ha fatto arrestare alcuni principi e diverse altre personalità con l’accusa di progettare un colpo di Stato. Tra gli arrestati vi sono Ahmed bin Abdulaziz, fratello del re Salman, e Mohammed bin Nayef, principe ereditario fino al 2017, quando fu sostituito da MbS che lo pose agli arresti domiciliari. Secondo quanto riportato da Reuters, gli arrestati sarebbero anche stati accusati di complottare con potenze straniere, inclusi “americani”.
In effetti, la Cia non si è mai dimostrata “amica” di MbS, come nel 2018 con l’accusa al principe di essere il mandante dell’assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. In quell’occasione, Trump si schierò a favore di MbS. Inoltre, la tragedia del popolo yemenita si sta sempre più rivelando un insuccesso per MbS e ha provocato deliberazioni bipartisan del Congresso americano di condanna e di sospensione delle vendite di armi ai sauditi. Anche queste bloccate da Trump. In più, il principe Ahmed è rientrato in Arabia Saudita nel 2018 da Londra, dove si era auto esiliato, pare con l’assicurazione a Cia e servizi britannici che non sarebbero state prese misure contro di lui.
Questa prova di forza di MbS è da diversi commentatori considerata una prova di debolezza e le misure prese possono aggravare la situazione, portando a un suo isolamento. Il basso prezzo del petrolio non è sopportabile da diversi membri dell’Opec, in Medio Oriente e in Africa, dove le situazioni politiche interne sono già gravi, come in Iraq o in Nigeria. Solo gli Emirati Arabi hanno approvato la strategia saudita e dichiarato che aumenteranno la loro produzione. Gli Emirati sono alleati dei sauditi nella guerra in Yemen, ma stanno sempre più conducendo una politica autonoma e anche questa mossa può rivelarsi non proprio di sostegno a Riyadh.
Una crisi in Arabia Saudita renderebbe ancor più incandescente la situazione in Medio Oriente, ma la politica di MbS sembra passare da un disastro all’altro, dalla catastrofe yemenita al collasso libanese, in cui ha avuto parte. Né il suo alleato di ferro, Trump, e quello “sotto traccia”, Netanyahu, possono essergli di grande aiuto: il primo deve fronteggiare una non facile campagna elettorale, il secondo un processo per corruzione, mentre Israele non riesce a darsi un governo dopo tre elezioni in un anno. Il Medio Oriente si sta sempre più rivelando una partita in cui tutti perdono, a partire dai semplici cittadini.