Lo sviluppo della società dell’informazione ha modificato profondamente il quadro dei conflitti. Secondo analisti americani come John Arquilla e David Rundfeldt, esperti della guerra in rete (netwar) alla Rand Corporation, non è più chi ha la bomba più grossa che prevarrà nei conflitti di domani, ma chi racconterà la storia migliore.



In quest’ottica, gli americani hanno parlato, fin dal 1997, del concetto chiave di information dominance. Definita come il controllo di tutto quanto è informazione, questa dottrina avrebbe la vocazione di plasmare il mondo attraverso l’armonizzazione delle pratiche e delle norme internazionali sul modello americano, col fine di mettere sotto controllo gli organi decisionali.



Basti pensare, osservano gli studiosi, come all’epoca dell’invasione del Kuwait l’opinione pubblica americana si era mobilitata a seguito di un processo disinformativo pianificato a livello militare o, più precisamente, a livello di guerra psicologica. I processi di manipolazione dell’informazione permettono di marginalizzare determinati fatti e perciò il dominio dell’informazione è divenuto una priorità per la strategia americana.

Pensiamo a come la guerra in Iraq abbia evidenziato l’importanza che la manipolazione dell’informazione ha assunto nelle relazioni internazionali. Le accuse avanzate da G.W. Bush contro Saddam Hussein riguardo l’esistenza di armi di distruzione di massa è divenuta un caso di scuola nella storia della disinformazione.



D’altra parte, non bisogna trarre erronee conclusioni riguardo ai modi di condurre la guerra cognitiva: spesso si commette l’errore di confondere la disinformazione o peggio la manipolazione e distorsione vera e propria dell’informazione per ingannare l’avversario o l’alleato, con la produzione di conoscenze concepite per orientare le regole di condotta.

A tal proposito Harbulot ha sottolineato il ruolo profondamente innovativo sul piano strategico della guerra informativa e le implicazioni che questa determina sulle imprese.

Naturalmente l’intento di Harbulot era quello di utilizzare la guerra cognitiva per tutelare gli interessi delle imprese economiche francesi nei confronti della concorrenza americana. Infatti, se i conflitti, dalla guerra del Golfo al Kosovo, hanno dimostrato la schiacciante superiorità dell’intelligence militare americana su un teatro di operazioni all’estero, che margine di manovra rimane oggigiorno ai responsabili dei servizi d’intelligence in Europa occidentale per difendere gli interessi geoeconomici del loro paese contro gli interessi americani? La risposta di Harbulot è netta: un margine sempre più stretto, per non dire una situazione di paralisi quasi totale, in alcuni casi.

Affinché questo divario venga superato è necessario modernizzare la riflessione di Sun Tzu, del Komintern e di Mao ma, soprattutto, quella di Winston Churchill che è stato il primo capo di governo occidentale ad aver orchestrato una guerra dell’informazione contro la Germania nazista (il Piano Jaël). In materia di disinformazione, egli rappresenta infatti il genio britannico che inganna il nemico sulle date e i luoghi di sbarco.

Naturalmente, la mancanza di disposizioni giuridiche riguardanti la manipolazione della conoscenza determina gravi preoccupazioni per la sicurezza economica delle imprese europee che devono, di conseguenza, dotarsi di tecniche capaci di gestire strategicamente le informazioni economiche.

È proprio alla luce delle scelte politico-militari americane che la strategia francese ha sentito la necessità di definire in modo rigoroso cosa sia la guerra informativa. L’espressione usata nel contesto strategico francese è quella di “guerra cognitiva”, definita come la capacità di utilizzare la conoscenza a scopo conflittuale.

In particolare, la Scuola di guerra economica francese riconosce nella guerra cognitiva uno scontro tra diverse capacità di ottenere, produrre e/o ostacolare determinate conoscenze, secondo rapporti di forza contraddistinti dal binomio “forte contro debole” o, inversamente, da quello di “debole contro forte”.

I numerosi esempi che ci vengono dal mondo dell’impresa testimoniano che l’innovazione in questo campo non si trova sempre necessariamente dalla parte del più forte. Naturalmente gli Stati Uniti rappresentano il principale artefice del pensiero cognitivo del “forte contro il debole”, come esempio di difesa della loro posizione di superpotenza, sia sul piano militare che su quello informativo. Nel modo di orientare la propria e l’altrui condotta da parte di questo Paese, c’è una completa acquisizione dell’importanza della guerra cognitiva come capacità di percezione dell’immagine delle singole potenze da parte dell’opinione pubblica mondiale, argomento di peso nella ricerca di legittimità che una democrazia deve acquisire in ambiti nazionali e internazionali. Gli Stati Uniti da sempre, ma in special modo dopo i fatti dell’11 settembre, hanno alimentato la legittimità della loro politica enfatizzando la difesa della democrazia e il bisogno di sicurezza globale come motivi per combattere le forze antidemocratiche.

Nel contesto attuale di fortissima competizione, la destabilizzazione gioca un ruolo fondamentale. Prendiamo – precisa Harbulot – un esempio entrato nel costume della guerra economica: una multinazionale decide di bloccare un concorrente nella realizzazione di un progetto in un’economia emergente.

Un’operazione di guerra cognitiva può assumere la seguente forma:

– individuazione dei punti deboli del concorrente nella zona in questione (le debolezze possono essere di varia natura: le tangenti pagate alle autorità, l’inquinamento ambientale, il mancato rispetto dei diritti umanitari). Tutte le informazioni raccolte devono essere verificabili e non devono dare luogo a interpretazioni fallaci.

– Scelta della procedura d’attacco attraverso l’informazione: se si prende in considerazione l’aspetto cognitivo, si può immaginare il seguente scenario. Il consigliere addetto a questa funzione fa versare dei fondi a una fondazione privata sostenuta dalla ditta. All’interno di questa fondazione, un uomo di fiducia utilizzerà questo denaro indirizzandolo verso un’Ong che si è posta come obiettivo la protezione dell’ambiente. La manovra consiste poi nel sensibilizzare l’Ong riguardo a questo dossier, comunicandole, indirettamente, delle informazioni verificabili (quindi non manipolate) sulle malefatte della multinazionale concorrente. L’Ong diffonde attraverso il suo sito internet messaggi negativi contro il progetto del concorrente. La catena cognitiva è così creata. In seguito si tratta di saperla attivare consapevolmente per destabilizzare il bersaglio.

Il punto di forza dell’attacco cognitivo non è ingannare o disinformare, ma alimentare una polemica pertinente appurata per mezzo di fatti oggettivi. Il livello della cospirazione si limita all’installazione e all’attivazione della catena informativa. Ma più la polemica è “fondata”, meno è facile dimostrare, anche solo teoricamente, la cospirazione.

È evidente come la diffusione delle nuove tecnologie informative abbiano esasperato la dimensione concorrenziale e agevolato la guerra cognitiva determinando, dicono gli analisti francesi, una conflittualità inedita persino rispetto alla Guerra fredda.

L’informazione entra a far parte dell’arte della guerra come arma in grado di far vincere o perdere un conflitto, militare o economico che sia. Si tratta di cambiamenti che impongono una rivoluzione culturale.

La guerra psicologica, poi, è una delle principali forme di guerra dell’informazione, la più sofisticata, perché si affida, innanzitutto, all’intelligenza umana nella sua capacità di comprendere le possibili azioni di successo, per mezzo, naturalmente, del controllo dei mezzi di comunicazione.

Poco praticata e conosciuta in Francia, la guerra psicologica è rimasta lontana dalle preoccupazioni dei militari che, il più delle volte, vi si sono imbattuti nella pressione degli eventi o degli avversari, come avvenuto in Indocina e in Algeria.

La guerra psicologica utilizza tutti i metodi a sua disposizione, dalla disinformazione all’inganno, dalla propaganda all’interdizione, in scontri di natura diversa (dalla lotta al terrorismo al combattimento convenzionale, fino alla sovvenzione della pace), ed è perlopiù diretta verso l’opinione pubblica, per condizionarla o manipolarla.

L’arma psicologica non contempla l’improvvisazione, ma si appoggia su una struttura operativa organizzata e condotta da personale e organismi specializzati.

I sistemi di comunicazione civili sono giunti a un livello di prestazioni prima riservato solo alle forze governative e alle forze armate. Ciò ha provocato un effetto di massa con un conseguente abbattimento dei costi. Pertanto, se anche è prevista la conservazione di alcune capacità autonome militari, la realizzazione di sistemi informativi di difesa e intervento dipendono sempre più dai sistemi civili, il che crea una vulnerabilità che potrebbe essere sottovalutata in caso di crisi o di conflitto.

Il quadro di azione della sfera informativa è divenuto molto conflittuale, perciò la guerra di informazione è diventata inevitabile e si esercita secondo la funzione di appropriazione (intelligence); interdizione (limitazione dell’accesso alle informazioni) e manipolazione (intossicazione).

L’intelligence economica è una risposta necessaria a un mondo senza più confini di tempo e di spazio, dove l’informazione è istantanea e il tempo di reazione nullo. Una riorganizzazione delle strutture attorno alla nuova dimensione assunta dal rapporto tra informazione e intelligence, porta a dei cambiamenti nel sistema decisionale oltre che nella gestione delle risorse umane. Una rivoluzione, in primis, culturale, che fa dell’informazione un’arma che è necessario integrare nella strategia di difesa nazionale.

Quale lezione possiamo dunque ricavare dalla riflessione francese sull’intelligence economica e sulla guerra economica per il nostro paese? La lezione che la riflessione francese può dare all’Italia è decisiva, poiché la guerra economica e l’intelligence economica sono due strumenti indispensabili per salvaguardare l’integrità economica di ogni singolo paese e nello stesso tempo per consentire a uno Stato di porre in essere una politica di proiezione di potenza economica. Non a caso sono stati gli Stati Uniti e il Giappone – prima della Francia – a elaborare sotto il profilo strategico la guerra economica.

Per l’Italia la questione decisiva sta nella metodologia, e cioè nell’approccio che un apparato di intelligence decide di adottare per comprendere la dinamica conflittuale della guerra economica. Sotto questo profilo non esiste una metodologia chiaramente identificabile nelle riflessioni dell’intelligence italiana. L’Italia potrebbe fare molto di più da questo punto di vista adottando l’approccio della scuola di guerra economica di Parigi e servendosene per tutelare i propri interessi. Se adottiamo la griglia di lettura della scuola di guerra economica francese  non sarà certo difficile individuare gli asset strategici fondamentali che l’Italia deve tutelare, dal settore energetico a quello dell’industria militare; e non sarà certamente difficile individuare quali sono i competitors o i players nei cui confronti l’Italia deve assumere un atteggiamento offensivo allo scopo di tutelare la propria sovranità economica.

Nonostante alcuni approcci di natura sociologica abbiano sottolineato come la globalizzazione avrebbe ridimensionato in modo considerevole il ruolo degli Stati, la riflessione sulla guerra economica e sull’intelligence economica dimostra invece come lo Stato sia tornato ad essere un soggetto attivo e come esso abbia – fra le sue finalità – quello di catalizzare le esigenze del settore produttivo nazionale. La Francia ha pienamente compreso da tempo tutto ciò ed è proprio per questo che ha creato le premesse per attuare una espansione dei propri apparati economici ed istituzionali. Con buona pace di coloro che hanno suonato la campana a morte degli Stati, questi al contrario devono ristrutturarsi per salvaguardare la propria competitività.

Non a caso la relazione annuale del Copasir sottolinea quale quale sia stata la modalità di azione della Francia: “uno dei vantaggi francesi è l’aver coniugato intelligence economica (Ie), business intelligence (Bi) e competitive intelligence (Ci) creando una struttura parastatale, la partecipata pubblico-privata Agence pour la diffusion de l’information technologique (Adit), che svolge regolarmente attività di Bi e Ci e, al contempo, supporta l’Ie francese all’occorrenza. Adit risulta, così, la sintesi di un concetto olistico dell’Ie e di un interesse pubblico per gli affari economici che si spinge capillarmente fino alla consulenza rivolta alle piccole e medie imprese”.

Tutto ciò d’altra parte non deve destare sorpresa poiché il paese transalpino ha dato una lettura molto particolare dell’attività di intelligence economica: questa infatti deve essere inserita in un preciso contesto geopolitico, deve cioè creare le condizioni per una sinergia tra settore pubblico e quello privato allo scopo di attuare una programmazione sul medio-lungo termine che sia in grado di dare un indirizzo di strategia nazionale al nostro paese.

A tale proposito non dobbiamo dimenticare come proprio la Francia abbia attuato in questi ultimi anni una politica aggressiva sul piano economico nei confronti dell’Italia, per esempio attraverso la realizzazione di joint-venture in settori decisivi e come d’altra parte abbia anche consolidato la sua presenza nel nostro paese rafforzando il ruolo di quello che potremmo definire il partito francese presente in Italia.

Non dobbiamo insomma sottovalutare la capacità che la Francia ha avuto di entrare in termini capillari nel tessuto finanziario del nostro paese, penetrazione questa che naturalmente ha avvantaggiato ed avvantaggerà le imprese transalpine. In altri termini, per un paese come l’Italia che non ha una politica energetica autonoma – come quella che avrebbe voluto Enrico Mattei – per un paese come il nostro che è fortemente dipendente dalle importazioni sia di materie prime che di combustibili, l’intelligence economica svolge un ruolo fondamentale ma deve essere il risultato del coordinamento tra lo Stato e le imprese private (per esempio tra un centro di programmazione nazionale dedicato all’intelligence economica che interagisca in modo sinergico con le multinazionali come Eni o Leonardo). Questa sinergia tra il centro e la periferia, tra il pubblico e il privato dovrà essere attuato proprio dalla intelligence economica e, più esattamente, da un apparato di intelligence economica specifico da collocare all’interno naturalmente dell’architettura dell’intelligence di carattere nazionale.

(3 – fine)

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI