La minaccia alla libertà di Hong Kong non è un fatto isolato. L’approvazione della nuova legge sulla sicurezza nazionale che punisce qualsiasi atto che metta in discussione l’autorità ed il controllo del Partito comunista cinese sulla città, colonia britannica fino al 1997, rientra nel preciso disegno geopolitico portato avanti con costanza, metodo e pazienza da Pechino. Mentre il mondo è ancora alle prese con la pandemia, la Cina approfitta della distrazione sanitaria per compiere le sue mosse, per affermare la sua sovranità nei mari e di nuovo contro l’India. Il 10 maggio i giornali giapponesi riportavano la notizia di due motovedette cinesi entrate nelle acque territoriali del Sol Levante, a largo delle isole Senkaku. Un mese prima due navi della guardia costiera avevano speronato e affondato due pescherecci vietnamiti. Adesso arrivano gli incidenti sull’Himalaya tra soldati indiani ed esercito cinese lì saliti con la scusa di nuove rilevazioni e con lo scopo di impiantare nuove postazioni militari nonché anche ripetitori 5G.



Atti che hanno scatenato le ire del presidente Trump, già sul piede di guerra con Pechino a causa della gestione del coronavirus, e che lo ha spinto a minacciare pesantissime ritorsioni economiche fino alla possibilità di cancellare lo status commerciale privilegiato di Hong Kong.

Il fatto, però, è che le cose sono un po’ più complesse. La nuova guerra fredda o guerra fredda 2.0, che i cinesi non chiamano così (anche perché quel conflitto ha avuto come vincitore gli Stati Uniti) avviene infatti con il paese sfidante il predominio americano ben dentro i meccanismi economici dell’ordine neoliberale o capitalistico della globalizzazione. Se Pechino non scherza con le accuse e offese, arrivando a definire il Segretario di Stato Pompeo, “il peggior nemico dell’umanità”, il disegno di Pechino è lineare e ogni ipotesi di sganciamento delle economie dei due paesi sembra impossibile.



Per la Cina – secondo lo studioso Ian Yuying Liu – l’adesione a norme e leggi di diritto internazionali è un veicolo per l’affermazione dell’egemonia, dell’avverarsi del suo sogno imperiale, variante di neoliberalismo e confucianesimo in salsa comunista, per dimostrare che la marcia nel cuore dell’economia mondiale neoliberale può essere raggiunta attraverso il quadro legale internazionale.

Uso quindi delle norme internazionali, non loro sottoscrizione passiva. Perché “se dobbiamo ballare con i lupi” l’Impero di Mezzo vuole deciderne il ritmo. In questa battuta del generale Qiao Liang in un’intervista del 19 maggio riportata da Asia Times, è riassunto efficacemente il pensiero geopolitico. Qiao Liang non è una figura qualsiasi: nel 1999 – quando ancora la Cina si affacciava appena sul mondo – assieme al suo collega Wang Xiangsui scrisse un libro di strategia destinato a segnare un epoca, “Guerra senza limiti”, dove si teorizzava l’avvento di un nuovo tipo di conflitto asimmetrico, la nascente guerra ibrida, rielaborazione postmoderna dell’Arte della guerra di Sun Tzu, scritto 2.500 anni fa.



Secondo il generale, in sintesi, come possono gli Usa scatenare una guerra commerciale contro la Cina, il maggior paese manifatturiero del mondo e primo esportatore? Un paese che produce, solo per fare un esempio in tempi di Covid-19, ben 1.100 componenti su 1.400 di ogni ventilatore? Se gli Usa bloccano le importazioni, cosa succederà alla loro economia? Produrranno in casa quei componenti, ma a quali costi, considerato che la manodopera per di più specializzata americana non è certo a buon mercato come quella cinese? e quanto tempo impiegheranno a riconvertire il sistema produttivo? E che fine farà il loro debito, chi lo comprerà? E quindi come potranno a continuare a stampare moneta in modo illimitato? Certo rimane un’opzione: sostituire la Cina con altri paesi sempre con mano d’opera a basso costo, ma con chi? Chi dispone di decine di milioni di operai specializzati, tecnici e laureati? Perché non bisogna dimenticare che le università cinesi sfornano 47 milioni di laureati in matematica e ingegneria ogni anno (l’India ad esempio la metà e gli Stati Uniti 560mila).

La strada per la riunificazione con Taiwan è lunga, gli Stati Uniti sono forti militarmente e la Cina deve avere pazienza, ma deve essere determinata. “A parte la guerra, altre opzioni devono essere prese in considerazione. Dobbiamo pensare a tutti gli strumenti a disposizione nell’immensa zona grigia tra la guerra e la pace; possiamo ricorrere anche ad operazioni militari che non conducano alla guerra, ma che comportino un moderato uso della forza”.