L’ambiente marittimo è sia un mezzo di trasporto che una risorsa. Il primo aspetto si esprime ovviamente attraverso ciò che viene trasportato in nave: container, petrolio, minerali, tanti oggetti e tante risorse della nostra vita quotidiana sono passati attraverso il mare prima che noi li utilizziamo. Anche i dati attraversano il mare, poiché i cavi sottomarini sono il cuore di Internet, costituendo il volto “reale” del mondo “virtuale”. Per il secondo aspetto, quello delle risorse, si tratta sia di cibo, con principalmente pesca, energia, fossile con petrolio e gas, o rinnovabile con turbine eoliche e turbine maree, o ancora minerali, a partire dalla sabbia, il cui sfruttamento è poco conosciuto, ma essenziale per molte attività tra cui l’edilizia.



Fu a partire dal XV secolo, che corrispondeva all’inizio delle grandi scoperte, che il controllo dei mari divenne un argomento importante. A quel tempo, il britannico Sir Walter Raleigh ne teorizzò l’importanza: “Chi detiene il mare detiene il commercio del mondo; chi detiene il commercio detiene la ricchezza; chi detiene la ricchezza del mondo detiene il mondo stesso”. A poco a poco, il Regno Unito diventa la superpotenza marittima per eccellenza, soppiantando una Spagna e un Portogallo presto esauriti dalla colonizzazione di un Sud America troppo grande per loro e impossibilitato a competere con una Francia troppo terrestre. Alla fine del XIX secolo, la Gran Bretagna controllava le principali vie marittime e il suo impero era vasto, con i grandi spazi aperti di Australia e Canada e con le Indie britanniche.



Ma l’ingresso nel XX secolo ha coinciso con l’arrivo di un nuovo attore negli oceani, gli Stati Uniti. Il teorico in carica qui è Alfred Mahan, che ha aggiornato la teoria di Raleigh specificando che il controllo del mare passa per quello delle rotte marittime e che in questa materia tutto si gioca a livello degli stretti. L’anno cardine in questo senso è senza dubbio il 1914: corrisponde all’inaugurazione del Canale di Panama, passaggio marittimo controllato dallo Zio Sam, ma anche dell’inizio della prima guerra mondiale, che allo stesso tempo indebolisce il Regno Unito, a causa dell’energia spesa nel conflitto che non compensa i guadagni territoriali in Africa, Medio Oriente e Pacifico. La svolta che completa la trasformazione degli Stati Uniti nella grande potenza marittima della seconda metà del XX secolo è la seconda guerra mondiale. Gli europei, compresi quelli che appartengono al campo vittorioso, sono troppo indeboliti per mantenere le loro prerogative storiche, specialmente quando gli imperi coloniali diventano complicati da mantenere per ragioni politiche oltre che demografiche.



Gli Stati Uniti uscirono dalla guerra con una colossale flotta militare e mercantile (grazie, tra l’altro, alle navi Liberty), e furono in grado di ricostituire quelle dei loro nuovi alleati nel campo occidentale. Inoltre, questo aiuto non impedisce agli americani di far prevalere i propri interessi su quelli dei loro alleati, come con la crisi di Suez dove contrastarono con mezzi diplomatici l’intervento franco-britannico che era riuscito militarmente a riprendere il controllo di questo canale strategico. Questo dominio dei mari fu difficilmente contestato dai russi, ridotti a un confronto asimmetrico, simboleggiato dai sottomarini. È importante sottolineare che la Russia non ha accesso diretto agli oceani, risorsa questa degli Stati Uniti.

Nel 1990, l’Unione Sovietica crollò, ma una minaccia fantasma aleggiava già sull’onnipotente risveglio dell’America, quella della Cina. Sotto l’effetto delle riforme di Deng Xiao Ping, la sua economia stava iniziando a diventare competitiva e il paese stava usando il suo enorme bacino di manodopera a basso costo per diventare “la fabbrica del mondo”. Questa economia è orientata all’esportazione e genera un traffico marittimo colossale, a cui il Dragone sta aggiungendo il suo tocco: rapidamente, le compagnie di navigazione e la cantieristica cinesi stanno diventando attori chiave nei rispettivi settori. Dal punto di vista militare, il Regno di Mezzo aveva una marina quasi insignificante alla fine degli anni 80, ma oggi è la seconda al mondo dietro agli Stati Uniti, anche se questi mantengono un buon vantaggio.

A terra, la strategia cinese consiste innanzitutto nel controllare lo spazio contenuto all’interno di una prima catena di isole corrispondente al mare della Cina orientale e del Mar Cinese Meridionale, anche se in quest’ultimo significa non rispettare i diritti degli altri stati rivieraschi, o addirittura intimidire Taiwan, la “provincia ribelle”. Il passo successivo è dominare lo spazio all’interno di una seconda catena di isole situata più al largo, che metterebbe la Cina in contatto diretto con i possedimenti statunitensi, con il rischio di confronto che ciò comporta. La cosiddetta strategia della “collana di perle”, consistente nello sviluppo di infrastrutture cinesi nell’Oceano Indiano, mette in contatto anche il Regno di Mezzo con un altro concorrente, l’India, che desidera far valere i propri diritti in questo spazio che l’India considera il suo cortile. Infine, la Cina ha inaugurato la sua prima base navale oltremare a Gibuti nel 2018, e altre potrebbero seguirne negli anni a venire, ad esempio a Walvis Bay in Namibia. Questa espansione consolida il rango della Cina come potenza mondiale, mentre la Russia ha perso la maggior parte della sua rete di basi navali in tutto il mondo con il crollo dell’Urss.

La potenza del mare è composita, fatta di elementi che si moltiplicano tra loro più di quanto si sommano. Il primo di questi è l’accesso al mare, senza il quale nulla è possibile. Pertanto, il Regno Unito, un paese insulare, è naturalmente predisposto alla proiezione di potenza marittima. Anche gli Stati Uniti, delimitati da due ampie spazi marittimi, sono favoriti. Per la Russia le cose sono meno ovvie, così come per la Cina; infatti l’obiettivo della strategia della collana di perle è tanto quello di consentire l’accesso al mare da regioni periferiche come lo Xinjiang quanto di controllare le rotte marittime. Inoltre, a suo tempo, la Russia aveva cercato di sviluppare il suo accesso al mare con “la corsa ai mari caldi”.

Una volta padroneggiato l’accesso al mare, è necessario potersi muovere, grazie alle rotte marittime e più in particolare ai passaggi strategici. Oggi, gli americani ne mantengono il controllo, sebbene il Regno di Mezzo cerchi di tessere la sua rete. Ad esempio, invece di voler mettere le mani sul Canale di Panama, la Cina sostiene un progetto di canale concorrente in Nicaragua, anche se per il momento quest’ultimo è fermo. Il traffico richiede anche una flotta mercantile, e la Cina è tra i campioni del trasporto marittimo e anche nella costruzione navale, dove gli americani sono in gran parte lasciati indietro, frenati da un protezionistico Jones Act che mantiene una significativa flotta mercantile, ma marginalizzati nella globalizzazione.

In generale, dove lo spazio terrestre è in gran parte controllato dalle nostre società umane, il mare sfugge molto di più a questo fenomeno, al punto che è ancora uno spazio da conquistare in molti modi. Le regioni polari, in particolare il gelido Oceano Artico, ma anche i mari che circondano il continente antartico, costituiscono una nuova frontiera per gli esseri umani. Anche il fondale marino e le sue risorse minerarie sono spesso meno conosciute dello spazio terrestre.

Un ultima considerazione infine: il nostro paese – con l’eccezione delle repubbliche marinare – non ha saputo sfruttare la sua proiezione di potenza marittima. Ed è questa una delle ragioni, certo non la sola, che ha impedito – ed impedisce – all’Italia di avere una politica estera credibile, autorevole e soprattutto in grado di arrestare le ambizioni egemoniche turche.