Il presidente della Turchia Erdogan di fronte alla mancanza di risolutezza da parte americana e da parte europea di porre in essere una zona di sicurezza in Siria ha minacciato, durante un discorso ai dirigenti del suo partito Akp, di servirsi dei profughi siriani – un milione circa – come strumento di destabilizzazione politica favorendo la loro emigrazione in Europa.
Tuttavia per poter realizzare questa fascia di sicurezza nel nord della Siria è indispensabile che le milizie curde-siriane (Ypg o Unità di protezione popolare) sostenute dagli Stati Uniti in funzione anti-Isis ma considerate formazioni terroristiche dalla Turchia, da Israele e dalla Ue, si ritirino. Questa postura offensiva non deve destare alcuna sorpresa, dal momento che Erdogan ad agosto aveva dichiarato che non avrebbe aspettato per un tempo indefinito a realizzare la zona di sicurezza.
Nonostante il fatto che gli Stati Uniti siano riusciti a persuadere le milizie curde-siriane a lasciare alcune postazioni a nord di Raqqa, la Turchia non crede che gli Stati Uniti siano nelle condizioni politiche di imporre a tali milizie il ritiro preventivato. Inoltre la Turchia, contando sull’intrinseca debolezza dell’Unione Europea – che non è certo in grado di condizionare le scelte politiche turche – e sull’assenza di una politica unitaria in merito all’emigrazione, ricatta l’Unione Europea, chiedendole nuovamente un rilevante contributo economico per realizzare la fascia di sicurezza, contributo che era stata in grado di ottenere già nel marzo del 2016, anno nel quale l’Unione Europea aveva versato alla Turchia circa 5 miliardi di euro sui 6 preventivati.
Ora, al di là dell’uso politico dei profughi siriani, a livello strettamente geopolitico la Turchia sta cercando di conseguire un’autonomia di carattere sia militare che politico per la futura spartizione del Medio oriente (Siria e Iraq), cercando di ridimensionare il ruolo americano nell’area. Allo scopo di poter conseguire questo obiettivo, Ankara ha posto in essere scelte geopolitiche di riavvicinamento verso la Russia di particolare rilevanza perché determinano un allontanamento graduale ma significativo dalla tradizionale alleanza con la Nato e gli Usa (non dobbiamo dimenticare che la Turchia è stata per la Nato uno strumento fondamentale non solo e non tanto per il ruolo di contenimento rispetto all’Urss e ai suoi alleati, ma soprattutto per la sua capacità di proiezione di potenza in Medio oriente).
In primo luogo proprio la Russia ha attuato, per esempio ad Afrin nel marzo del 2018, una politica di tacito consenso all’offensiva turca permettendo all’aviazione di Ankara di compiere i bombardamenti in uno spazio aereo che di fatto era – ed è – sotto il suo controllo, rendendo in questo modo sempre più difficile conseguire da parte curda l’autogoverno nel nordovest della Siria.
In secondo luogo, l’avvicinamento con la Russia è la conseguenza della necessità di raggiungere l’autonomia energetica. Stiamo naturalmente alludendo al gasdotto sottomarino noto come Turkish Stream, con il quale la Turchia intende diventare lo snodo fondamentale tra la Russia, il Medio oriente, il Levante e l’Europa, il cui completamento è stato annunciato nel novembre del 2018 a Istanbul. Grazie al gasdotto sarà possibile trasportare circa 15,75 miliardi di metri cubi di gas all’anno, che basteranno a rifornire innanzitutto la Turchia e in un secondo momento i paesi dell’Europa meridionale e sudorientale.
In terzo luogo l’avvicinamento, questa volta da parte della Russia nei confronti di Ankara, è certamente il controllo turco del Bosforo e dei Dardanelli che per Mosca sono uno strumento rilevante per la sua espansione sia nel Mediterraneo che nell’Oceano Indiano e dai quali transita il 38% del petrolio russo.