La recente visita di Donald Trump nel Regno Unito ha avuto il suo punto saliente, almeno per il grande pubblico, nello scontro con il sindaco di Londra, Sadiq Khan, con un reciproco scambio di giudizi molto vicini all’insulto. L’inizio dello scambio di invettive via Twitter risale al 2016, quando Khan, musulmano di origini pachistane, criticò pesantemente le iniziative antimmigrazione di Trump, ed è poi continuato nel 2017 con le accuse di Trump al sindaco di avere gestito male gli attentati terroristici di quel periodo, e durante la visita di Trump nel 2018.
Lo scontro ha una chiara base politica e culturale, evidenziata in un intervento di Khan su The Guardian poco prima dell’arrivo di Trump, i cui tweet sembrerebbero, questa volta, dei “falli di reazione”. Nel suo intervento, intitolato “Non è britannico stendere tappeti rossi a Donald Trump”, Khan equipara di fatto Trump ai dittatori degli anni 30 e 40, alle giunte militari degli anni 70 e 80, a Putin e Kim Jong-un. Trump è definito come “uno dei più vergognosi esempi di un crescente pericolo globale”, che per Khan è l’ascesa dell’estrema destra e, a tal proposito, cita anche Viktor Orbán in Ungheria, Matteo Salvini in Italia, Marine Le Pen in Francia e Nigel Farage in UK. Tutta gente, secondo il sindaco, che utilizza con crescente successo gli stessi divisivi temi dei fascisti del secolo scorso.
Un’accusa appare peraltro oggettiva: con il suo esplicito appoggio a Boris Johnson, un acceso Brexiteer, Trump è entrato a gamba tesa nella delicata questione della successione a Theresa May alla guida del governo. Comprensibile quindi la denuncia di Sadiq Khan, laburista e Remainer, ma ciò che fa un po’ sorridere è che uno scontro simile avvenne nel 2016, a parti invertite, durante la visita di Barack Obama con Boris Johnson, allora sindaco di Londra. Se ora Trump si è preso del fascista e razzista da Khan, allora Johnson definì Obama doppiamente ex colono britannico, come americano e per le sue origini keniote.
La reazione di “Boris il rosso” fu provocata dalla pesante interferenza di Obama sulla questione Brexit, quando dichiarò che, se fosse uscito dall’Unione Europea, il Regno Unito sarebbe rimasto “in fondo alla coda” nelle trattative con Washington. Una posizione diametralmente opposta a quella di Trump, che sostiene addirittura un hard Brexit, promettendo ponti d’oro in una rinnovata e stretta alleanza anglo-americana. L’intervento di Obama ebbe un esito negativo, visto il risultato del referendum, e non è detto che anche per Trump non si abbia lo stesso risultato e che il suo appoggio decreti il fallimento dei tentativi di Boris Johnson. Nessun politico britannico, e ciò vale anche per Farage, credo accetterebbe di essere considerato dai suoi compatrioti la longa manus di Washington.
Le discussioni londinesi hanno messo in rilievo una certa distanza tra le posizioni britanniche e americane, evidenziando i timori di Londra per una eccessiva invadenza degli Stati Uniti. Significativa la diatriba sul National Health Service, il servizio sanitario nazionale, posta in atto dal segretario laburista Jeremy Corbyn, che Trump si è rifiutato di incontrare. Corbyn ha manifestato il timore che se lo NHS venisse incluso nelle trattative commerciali post Brexit con gli Usa, ciò porterebbe a una sempre più grande partecipazione di imprese statunitensi ai bandi pubblici e a una sostanziale privatizzazione del servizio, all’americana appunto. Queste preoccupazioni sono condivise da altri esponenti politici britannici, non solo laburisti, ma conservatori, del Partito Nazionale Scozzese e del governo regionale gallese.
A quanto pare, i cittadini del Regno Unito sono molto divisi sul rimanere o meno nell’Ue, ma sembrano molto più uniti nel rifiutare un completo abbandono nelle braccia degli Usa. The Donald ha quindi sbagliato tutto? Credo piuttosto che sia rimasto coerente alla sua strategia per cui tutto deve essere funzionale a ciò che ritiene l’interesse degli Stati Uniti. Un Regno Unito fuori dall’Unione Europea lo è, ma se pretende di rimanere indipendente cessa di esserlo. Insomma, “America First”, ma resta da vedere se tale strategia riuscirà a fare l’America “great again”.