Che si tratti di un contesto sociale, famigliare, aziendale o politico, l’uomo ha sempre cercato di interpretare e anticipare il futuro. Prevedere quello che potrebbe accadere produce indubbiamente vantaggi e permette di agire prima degli altri, oppure di prepararsi in tempo per affrontare possibili minacce. Così, ad esempio, sapere in anticipo come cambieranno le preferenze dei consumatori genera un vantaggio competitivo per un’azienda, oppure scorgere in tempo i segnali dei futuri mutamenti sociali che abbiano già iniziato a manifestarsi nel presente, è di fondamentale importanza per chi prende decisioni.



Quando si riflette sul futuro è naturale – direi quasi istintivo – pensare di “prevedere il futuro”, semplicemente perché è ciò che ha sempre cercato di fare l’uomo da millenni. Dalle sibille degli antichi greci ai profeti delle culture giudaico-cristiane, dagli sciamani tutt’ora presenti in molte regioni del mondo (come in Siberia, America del Nord, Amazzonia, Africa, Mongolia, Kazakistan o Indonesia) agli astrologi dei nostri giorni, l’esigenza di sapere come si evolverà il futuro è stata, ed è, talmente forte che spesso si pone in secondo piano, o si ignora del tutto, il grado di scientificità delle profezie prodotte.



Prevedere futuri

Anche se nel corso dei secoli sono mutate pratiche e metodi per prevedere il futuro, l’obiettivo è rimasto sempre lo stesso: cercare di capire in anticipo cosa accadrà nel futuro. La svolta c’è stata solo nel secolo scorso quando si è messa in discussione proprio l’espressione “prevedere il futuro”. Essa, infatti, contiene due elementi intrinsecamente fallaci. Il primo errore risiede nella convinzione, mai confermata dai fatti, che il futuro si possa prevedere. Bisogna partire invece dall’assunto che è impossibile prevedere il futuro, se non in rarissimi casi, cioè a brevissimo termine e quando un sistema è stabile: quest’ultima caratteristica certamente non è propria dei sistemi sociali, dell’economia, della politica o delle aziende. Il secondo malinteso risiede nel considerare il futuro al singolare, il che sottintende inevitabilmente che esso sia unico, cosa che ci impedirebbe di agire per modificarlo. Un futuro unico implica l’impossibilità di cambiarlo secondo le nostre azioni e le nostre volontà, cosa che vanificherebbe qualunque tipo di pianificazione, sia per un singolo individuo che per un’organizzazione.



Così, nella ricerca degli ultimi 60 anni l’attenzione si è spostata dal “cercare di capire cosa accadrà nel futuro”, che ci ingabbia nella pericolosa trappola del futuro unico e, quindi, della passività, al “cercare di anticipare e plasmare una pluralità di futuri”, approccio che ci restituisce il potere di modificare, in accezione proattiva, il corso degli eventi; detto in altre parole, ci restituisce responsabilità verso ciò che accadrà. Uno spostamento quindi di paradigma dalla “previsione del futuro” alla “mappatura di futuri alternativi”.

Anticipare i cambiamenti

Gli Studi sui Futuri (Futures Studies) riguardano pertanto l’analisi sistematica di futuri possibili, probabili e preferibili, comprese le visioni del mondo e i miti che sono alla base di ciascun futuro. Lo scopo è anticipare i grandi cambiamenti, sempre dietro l’angolo e sempre più impattanti e globali, e capirne le possibili conseguenze (siano esse positive o negative) sulla società, con il fine ultimo di prendere decisioni migliori. Jennifer Gidley, già presidente della World Futures Studies Federation, definisce il futuro come “né unico né statico, ma molteplice e in evoluzione”, sottolineando così l’impronta che oggi contraddistingue questo ampio e affascinante settore di ricerca.

Ciò nonostante, è ancora difficile tracciare una linea netta di demarcazione fra tutto ciò che rientra nella divinazione (quindi astrologia, cartomanzia, chiromanzia, oniromanzia, scapulomanzia, runologia, ornitomanzia, aruspicina e… chi più ne ha più ne metta) e ciò che invece è un approccio scientifico all’esplorazione del futuro. Così, pur trovandoci nel terzo decennio del ventunesimo secolo, travolti da una quantità enorme di mutamenti sociali e tecnologici sempre più rapidi, che impongono una riflessione seria e urgente su quali scenari si apriranno da qui ai prossimi cinque, dieci o venti anni, nelle culture occidentali è più forte la presenza degli astrologi che dei futuristi; basta aprire un quotidiano o guardare qualche trasmissione televisiva per rendersene conto.

Un problema culturale

Si tratta evidentemente di un problema culturale. Ad esempio, in ambito scolastico e universitario, è sempre fortissima la presenza della storia come materia di insegnamento mentre è ancora del tutto assente la materia futuro. Potrebbe apparire insolito parlare di futuro come materia d’insegnamento, ma in altri Paesi (Stati Uniti e Nord Europa in particolare) tale materia esiste. Più futuro e meno storia a scuola non è una proposta nuova; lo scrittore britannico Herbert George Wells è noto per essere considerato fra i primi studiosi del futuro e già nel 1901, durante un discorso alla Royal Institution di Londra, sosteneva la necessità di uno studio accademico del futuro. Diversi anni dopo, lo stesso Wells denunciò che a fronte di migliaia di professori di storia non vi fosse nessun professore di futuro.

Per fornire un esempio di quanto ancora oggi manchi una cultura scientifica sul futuro, riporto un fatto abbastanza recente. Il 26 novembre 2021, l’allora ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha affermato: “Non serve studiare quattro volte le guerre puniche, occorre cultura tecnica. Serve formare i giovani per le professioni del futuro”. In altre parole, ha semplicemente cercato di spiegare quanto sia importante studiare “anche” il futuro. Ebbene, il risultato è stato un mare di polemiche da parte di giornalisti, storici, pensatori e illustri professori universitari, che hanno erroneamente interpretato il suo pensiero come se avesse voluto eliminare l’insegnamento della storia. Viviamo in una nazione con millenni di storia, ma che non è forse mai riuscita a scrollarsi di dosso il passato per guardare proattivamente al futuro. Con l’espressione “scrollarsi di dosso” non intendo che la storia debba essere dimenticata o, peggio, rinnegata, ma solamente che la ricerca scientifica deve fare i conti più con il futuro che con il passato.

Quasi mai il passato si ripete e sempre più spesso il futuro è foriero di sorprese che prima di accadere avevano bassissima probabilità, ma che una volta accadute hanno avuto un impatto enorme (i cosiddetti Cigni Neri). Bisognerebbe smettere di credere di poter ricavare previsioni future dalle esperienze del passato perché, come dicono alcuni in questi casi, sarebbe come voler guidare l’automobile guardando sempre lo specchietto retrovisore. Quest’ultimo infatti, come la storia, è utilissimo, ma va consultato solo all’occorrenza mentre per la maggior parte del tempo il guidatore deve concentrarsi sulla strada che deve ancora percorrere. E deve anche saper leggere e monitorare costantemente tutti i dati che si leggono, in tempo reale, sul cruscotto; come a dire, le giovani generazioni dovrebbero prima saper interpretare la realtà presente, piena di dati di ogni tipo (servono competenze statistiche), per poi ragionare in prospettiva futura (servono competenze sul futuro).

Mentalità arretrata

Questa criticità della scuola veniva sollevata già da Bruno de Finetti (famoso statistico italiano) quando nelle sue Riflessioni sul futuro, nel 1968, affermava: “La mentalità media degli italiani (senza distinzione di classe) penso sia in arretrato almeno di trent’anni, e con grande difficoltà di migliorare causa l’errata educazione a guardare il passato anziché verso il futuro. Si dà più peso al latinorum che al Fortran, più alle conseguenze delle guerre puniche che a quelle possibili della guerra del Vietnam! Siamo come gli indovini nell’inferno di Dante!”. Mentre alcune società hanno già avviato processi di alfabetizzazione ai futuri (la così detta futures literacy), la scuola italiana discute ancora sul peso relativo del numero di ore di matematica o italiano.

Se si è d’accordo con il filosofo Roberto Poli che la scuola “deve formare persone autonome, capaci di stare in piedi, credere in sé stesse e nelle proprie idee, in grado di leggere il proprio ambiente e costruire le proprie fonti di reddito”, allora non bastano le materie scolastiche tradizionali, ma è necessario che il giovane sia in grado di padroneggiare il proprio presente per essere in grado di progettare il proprio futuro. Infatti, nessuno può sapere quali saranno le abilità necessarie fra cinque o dieci anni, ma tutti sono d’accordo sul fatto che quelle abilità saranno completamente diverse da quelle esistenti oggi. Molti ritengono addirittura (ma non è poi così difficile pensarlo) che la stragrande maggioranza dei lavori che ci saranno fra dieci anni non siano ancora stati inventati, per cui si tratterà in larga parte di competenze che oggi non esistono.

Immaginare scenari

Le lezioni del/dal passato certamente servono ma non bastano più, perché il punto non è “prevedere” il futuro – spesso cosa tanto impossibile quanto inutile – ma interpretare correttamente il presente, immaginare i futuri plausibili che ne derivano e, infine, capire come quei futuri si possano “usare” nel presente per prendere decisioni migliori. Statistica e futuro diventano pertanto cruciali e complementari per gli individui e le organizzazioni, chiamati a leggere correttamente il presente e agire per creare il futuro. Quindi, mentre da una parte persiste ancora oggi un atteggiamento passivo verso il futuro, in cui si cerca con grandi sforzi solo di scoprire cosa avverrà (tramite una carta o una stella o la proiezione in avanti di un trend), dall’altra la ricerca sta sviluppando un approccio diverso, proattivo, in cui l’attenzione si sposta dalla previsione alla scoperta ed esplorazione dei futuri per usarli nel presente.

Leonardo da Vinci, Galileo Galilei, Thomas Edison, Guglielmo Marconi e Albert Einstein – solo per citare alcuni dei tanti personaggi che hanno cambiato il corso della storia – furono dei visionari, perché non si sono limitati a prepararsi al futuro e, soprattutto, hanno rifiutato l’idea che il futuro fosse una regolare continuazione del passato; il futuro lo hanno creato! Il visionario è chi non subisce la realtà degli eventi ma sogna costruttivamente un futuro che non c’è. Il valore del visionario non è il risultato in sé ma la capacità stessa di produrre visioni future: tra cento di esse, una sarà quella giusta. In questo quadro di riferimento, gli statistici – ma non solo – sono chiamati a sviluppare ricerche anche in assenza di dati. Come noto, infatti, la statistica si occupa prevalentemente di dati, ma questi possono solo riguardare il passato o, al massimo, il presente: per il futuro non esistono dati!

Il ricercatore-creatore

Quando il ricercatore è concentrato sul passato e sul presente, il futuro è visto solo nei limiti delle estrapolazioni dei dati storici, il che costringe a pensare a un futuro unico, anche quando si usano le probabilità e le misure di incertezza (non entro nel merito tecnico di questa questione, ma voglio sottolineare solo che anche quando una previsione contiene attorno a sé un intervallo di incertezza, si tratta sempre di un futuro unico e non di futuri al plurale come li abbiamo intesi sopra). Fortunatamente, la statistica sta iniziando ad esplorare questo nuovo campo, quello dei futuri, con approcci diversi da quelli classici e, soprattutto, anche in assenza di dati. Si tratta di utilizzare correttamente, ad esempio, metodi per la costruzione di scenari, dove il dato storico è utilizzato per costruire solo uno dei diversi scenari futuri plausibili (lo scenario “senza sorprese”) al quale devono essere affiancati altri scenari che possono scaturire da altre fonti come, per fare un esempio, i dati soggettivi da testimoni privilegiati.

Ad essere più precisi la questione di fare ricerca “anche” sul futuro non riguarda solo la statistica. Nell’introduzione a Lavorare con il futuro, Roberto Poli sottolinea come in ambito scientifico prevalga uno sguardo rivolto all’indietro, essenzialmente basato sui dati. Riconoscere questo limite mi sembra un buon punto di partenza, per fare un po’ di sana autocritica e cercare di guardare alle sfide del futuro. Nella letteratura scientifica si parla, da qualche tempo, di cambiare paradigma e di spostare l’attenzione da una scienza orientata al passato a una scienza orientata al futuro. Alcuni si spingono oltre e iniziano a discutere sull’opportunità che la scienza non si limiti a esplorare e/o descrivere gli aspetti della vita sociale o individuale, ma si apra alla possibilità di “generare il futuro”.

Il ricercatore diventerebbe pertanto un “creatore del mondo”, ovviamente non nel senso divino del termine, ma nel senso che è opportuno (e aggiungerei forse anche un dovere morale) che i ricercatori inizino a plasmare attivamente i contorni del futuro. Ora più che mai, i giovani hanno bisogno di nuove competenze, come la statistica e gli studi sui futuri. Al contempo i ricercatori, inclusi gli statistici, sono chiamati a risolvere i (nuovi) problemi della società attraverso la creazione di scenari futuri, dando maggiore spazio all’immaginazione, all’esplorazione di alternative e alla creatività.

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