È importante mettere in evidenza la struttura della repubblica americana, nata premoderna ed oligarchica attorno ad un arcaico principio di libertà che stenta ancora oggi ad evolvere in chiave moderna. Nella Costituzione americana è assente la parola democrazia, ma si sancisce il principio della separazione dei poteri, principalmente per limitare i poteri del governo federale.
Un complicato sistema elettorale è strutturato per evitare la sovranità popolare che è meglio “interpretata” attraverso procedure locali, quindi asimmetriche a livello nazionale, che garantiscono il settlement tra gli interessi oligarchici che poi si riflettono nel governo federale. Insomma, una repubblica imperiale dei dominanti – autoproclamatisi “We the people” – che con la guerra crearono il primo surplus per la governance imperiale americana. Metodo che, ripetuto più volte, ha portato al dominio mondiale americano.
La repubblica americana è tuttora un’aristocrazia strutturale velata da un manto democratico offerto dalla garanzia di alcuni diritti fondamentali (definizione legale) e dallo svolgimento regolare di elezioni (definizione procedurale).
Un modello di società narcisista, perché fondato su una somma di individui – che colloca il giusto (right) prima del bene (good) – in cui l’obbligo morale è puramente contrattuale e trova espressione formalistica nel “politicamente corretto” (politically correct). È una società nichilista – costruitasi attraverso la disgregazione delle antimoderne strutture sociali – per cui la decontestualizzazione del soggetto è il fondamento della libertà che deve essergli garantita dalla massima deregolamentazione, cioè dallo smantellamento delle istituzioni e delle leggi comuni. È una società guidata dalla messianica certezza nell’ottimismo del progresso economico (American Dream) che integra l’inevitabilità del divario sociale e dove i miliardari filantropi sono i “fiduciari per i poveri” che non sanno “come spendere i soldi”. Gli Stati Uniti d’America sono strutturalmente un mix di liberismo totale e paternalistica magnanimità.
Nonostante l’opportunistica retorica della libertà, gli Stati Uniti sono una democrazia egoista, perché spudoratamente “estrattiva” della ricchezza e del benessere altrui.
La relazione teleologica (neo)liberale alla prova del capitalismo
Si analizza il rapporto teleologico tra l’ordine liberale e la democrazia americana per cui lo Stato è autolimitato alle questioni politico-sociali e di sicurezza (Imperium – “rule of states”), mentre gli interessi economici sono gestiti in modo autonomo ed esclusivo dalle élite capitalistiche (Dominium – “rule of property”). Ciò ha un duplice scopo: da un lato, la sterilizzazione del conflitto sociale attraverso la dialettica politica, e dall’altro, stabilire una dinamica di “adattamenti concordati” (settlement) tra gli interessi dello Stato e quelli economici, con il primo che deve garantire la “custodia esclusiva” (encasement) dei secondi. È il cuore del pensiero neoliberale.
Nelle varie fasi capitalistiche – scarsità, abbondanza e progressismo – la relazione teleologica ha assolto la sua funzione, approdando all’alleanza “mercato-democrazia”. Un’alleanza tattica e teleologica ma asimmetrica, che ha caratterizzato un’era che fu rilanciata da Frank Delano Roosevelt e che durò fino alla fine degli anni 60 (The Thirty Glorious Years). Fu il regno della quantità contrapposto a quello della qualità. D’altra parte, il capitalismo è una grande fiera delle vanità che si nutre di invidia sociale e promette lusso e agiatezza per tutti che senza paura interiorizzano l’omologazione dei desideri, dei sentimenti e delle passioni.
Con gli anni 70 si concluse definitivamente l’era degli Imperi europei, dando luogo ad una frammentazione globale che mise in pericolo l’egemonia americana. Trovando difficile, nel nuovo contesto, preservare la relazione teleologica, i neoliberali della scuola di Chicago, deviando dalle concezioni dei colleghi mitteleuropei, organizzarono una virulenta reazione, una vendetta contro le richieste della maggioranza del mondo – “la detronizzazione della politica” – che culminò nel ’79 con il Volcker Shock, che diede il colpo finale alle domande di giustizia redistributiva e costrinse molti governi ad abbandonare gli esperimenti socialdemocratici della gestione del mercato mediante l’intervento pubblico.
Determinati a difendere con ogni mezzo il commercio mondiale (free trade), i neoliberali misero le basi per un laboratorio sistemico normativo (system design) su scala globale. Si disegnava un nuovo sistema, non più internazionale ma globale, incentrato sulla finanza la cui gestione e governance veniva elevata ad un livello superiore rispetto agli Stati nazione.
Gli anni 70 segnarono una rottura profonda con il precedente pensiero positivista, (neo)liberale e democratico, mettendo in crisi, a partire dagli anni 80, la relazione teleologica. Come in cibernetica, non si ragionava più in termini di “ordine”, bensì in quello di “sistemi” che possono essere sviluppati e modificati per renderli ottimali. Il sistema è il tutto che prevale sulle singolarità che devono adattarsi ai bisogni dell’insieme (structural adjustment).
Secondo questa concezione, esiste una gerarchia multilivello di regole: quelle incoscienti, regole fisiologiche istintive, che sono relativamente costanti; quelle inconsce o derivate dalla tradizione; e, quelle sovraordinate alle prime due, un livello “leggero” di regole adottate deliberatamente o modificate per raggiungere dei risultati previsti. Queste ultime regole sono il risultato di una volontaria applicazione razionale, che pertanto dobbiamo obbligarci a rispettare. Così si affermò il principio di sopranazionalità che era stato pensato già negli anni 20-30 in opposizione ai nascenti totalitarismi europei.
La convinzione era che solo un’economia di mercato libera di operare e affrancata da regole nazionali offrisse una soluzione “pacifica” ai gravi squilibri che si prospettavano nel futuro prossimo.
L’asimmetria nel rapporto teleologico tra ordine (sistema) neoliberale e democrazia è divenuta sempre più palese, molto marcata nel mondo anglosassone, e in particolare in quello americano, dove la riduzione della macroeconomia a calcolo matematico impressiona i politici, ma crea danni enormi perché si fonda su teorie di aspettative razionali e di mercati perfetti, che nella realtà sono inesistenti.
Un’asimmetria che mette in profonda crisi – di legittimità e di credibilità – la democrazia e l’ordine sociale sia negli Stati Uniti d’America sia in Europa. Un’asimmetria che mina alla base anche il pensiero neoliberale – orfano del rapporto teleologico – che dopo l’iniziale “ubriacatura” della deregolamentazione e della globalizzazione, dalla fine del millennio non ha più saputo dare risposte credibili e sostenibili, lasciando la società priva di speranza e in preda alla paura.
Rianimare il rapporto teleologico riesumando il New Deal in vario modo è stato, come sappiamo, di poca efficacia rispetto alla potenza sovrastatale del capitale finanziario.
Rottura concettuale del rapporto teleologico e crisi del (neo)liberalismo
Si analizza la destrutturazione della concezione moderna del mondo, quella lineare, in due ambiti gerarchicamente ordinati: supra, il capitale/mercato si mitizza attraverso archetipi custoditi da una nuova oligarchia finanziaria che si sovrappone agli Stati, alle nazioni, e alla vita delle persone; infra, gli Stati/nazioni accettano attivamente la privatizzazione del bene comune e quindi del modello di organizzazione sociale democratico e della sovranità popolare.
La relazione teleologica tra ordine liberale e democrazia è stata deliberatamente e strategicamente interrotta (decoupling) con l’adozione di misure atte a soddisfare gli appetiti capitalistici delle origini, ma, a partire dagli anni 80, con mezzi enormemente potenziati.
La vita umana ha subìto una mercificazione generalizzata (human capital), incentrata sul credito e sulla paura, e il mondo è sistematicamente depredato e interamente finalizzato alla fruttificazione del capitale finanziario.
Abbandonata l’epoca valoriale della disciplina tayloriana e fordista che era compensata dalla speranza offerta dallo Stato, la democrazia americana è sussunta nel biopotere del capitalismo ordoliberale che con il controllo attraverso un mix di dispositivi – tecnologie, monetarismo e finanza – assumerà l’effettivo governo sulle popolazioni nel mondo.
La “trappola del denaro” facile ha trasformato gli Stati in clienti dell’industria finanziaria che ha potuto facilmente imporre criteri di riassicurazione governativa rispetto alla sostenibilità dei crediti emessi, mettendo le basi per la crisi finanziaria – e del neoliberalismo – esplosa dieci anni dopo, nel 2008. È stato così che le élite, e non le masse, hanno tradito la democrazia.
Infatti, è durante la presidenza Obama che la sentenza “citizens united” (2010) ha trasformato la “repubblica oligarchica” americana in “repubblica corporativa”, annullando tutti i limiti che vietavano alle corporations, comprese le organizzazioni senza scopo di lucro, e i sindacati di investire in campagne elettorali.
Il potere mercantile, divenuto finanziario, è prevalso e ha acquisito quello politico e il sistema neoliberale è stato costellato da un susseguirsi concatenato di crisi sociali, politiche, finanziarie e geopolitiche. Il primo segnale fu l’onda di ritorno del post-colonialismo reazionario (11 settembre) al quale si è risposto, ancora una volta, con la guerra come surplus per la governance imperiale americana. Uno schema ripetutosi nuovamente in Iraq, e poi in Siria, senza capire che si trattava di una crisi di “riequilibrio geopolitico” del controllo biopolitico, cioè di governance, che dimostrava l’instabilità strutturale sistemica dell’unilateralismo americano.
Si poteva capire già allora che il sistema neoliberale era ormai entrato in uno stato di confusione e che occorreva ripensare tutto per vincere sul capitale finanziario e sul suo perverso connubio con il terrorismo e la paura.
La guerra è diventata costituente e soggettivante nelle nostre società e nell’ordine liberale?
È drammatico che dopo l’esplosione planetaria della pandemia nel 2020 sia la concorrenza mercantile e il biopotere della finanza a dettare le soluzioni in un mix di reazionarismo culturale, smarrimento istituzionale e trovate propagandistiche. La retorica del maggio 2020 sui “vaccini bene comune” è rimasta solo un annuncio.
Pensare che il “bene comune” possa essere garantito e gestito dai filantrocapitalisti di Davos è drammaticamente sbagliato. Alla retorica della “guerra al virus” si è sovrapposta la più reale “guerra dei brevetti” (property) che il nuovo potere plutocratico tecno-bio-finanziario sta lanciando sull’umanità. Un biopotere epistemico e ontologico, che sussume, imprigionandolo, lo spirito.
La “retrotopia” caratterizza la vita, i valori sociali, culturali, e civili. Una serissima minaccia per la democrazia e per il rapporto teleologico senza il quale il neoliberalismo fallisce, aprendo a scenari terrificanti perché totalizzanti.
(2 – continua)
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