Pubblichiamo alcuni stralci dell’intervento di Franco Gallo, presidente dell’Enciclopedia Treccani ed ex presidente della Corte costituzionale, in occasione dell’incontro “È sviluppo se aumenta la disuguaglianza?”, tenutosi martedì 24 agosto al Meeting di Rimini, cui hanno partecipato anche Jean-Paul Fitoussi, economista, e Stefano Zamagni, presidente dell’Accademia Pontificia per le scienze sociali.



È sviluppo se aumenta la disuguaglianza? È una domanda forse un po’ retorica quella che oggi ci poniamo. Almeno a mio avviso, la risposta non può che essere negativa, nel senso che non può esserci sviluppo o, meglio, non può esserci uno sviluppo socialmente, moralmente e politicamente accettabile, se non è frutto anche di politiche e strategie che garantiscano compatibilità ambientale e sociale, combattano la povertà, intervengano nei processi di ridistribuzione della ricchezza e incidano sulle disparità economiche di partenza.



Non mi pare che tutto ciò sia avvenuto in Italia specie in quest’ultimo trentennio. Le statistiche ufficiali ci ricordano infatti che, già prima della crisi pandemica, l’Italia era il secondo Paese in Europa quanto a disuguaglianze e a distribuzione di redditi e di ricchezza e che il divario tra generazioni si va sempre più accentuando con lo spostamento della ricchezza verso la popolazione più anziana.

Da quando è scoppiata la crisi pandemica il coefficiente di Gini – ovvero l’indice delle differenze nella distribuzione del reddito – è aumentato del 4% e dal 2019 al 2020 i nuovi poveri sono passati dal 31 al 45%. Ed è un fatto ben noto che, oggi, circa la metà del reddito totale è in mano al 10% delle famiglie, mentre il 90% deve dividersi l’altra metà.



Sono, perciò, più che convincenti le considerazioni di quegli economisti che hanno fatto rilevare che uno sviluppo fondato su disuguaglianze crescenti, anche se può portare in certi momenti e a certe condizioni vantaggi ad alcune categorie e ad alcuni settori, a lungo termine finisce per destabilizzare l’economia, riportando indietro il livello di benessere della popolazione. Diversi studi dimostrano, infatti, che disuguaglianze e sviluppo economico sono inversamente proporzionali e che sono proprio le carenze distributive a deprimere la crescita, perché riducono i consumi e la produttività e rendono il sistema nel complesso meno efficiente. Insomma, la storia degli anni passati ci ha dimostrato che non si è verificato l’effetto a cascata, il cosiddetto sgocciolamento, auspicato dai neoliberisti, che dai piani alti della società avrebbe dovuto trasferire la ricchezza fino ai piani bassi. Al contrario, sono risultati evidenti sia gli effetti perversi e discriminatori della polarizzazione della ricchezza, sia, soprattutto, quei difetti che John Maynard Keynes sintetizzava “nell’incapacità di provvedere un’occupazione piena e nella distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi”.

Insomma, non può negarsi che dopo i trent’anni gloriosi seguiti alla Seconda guerra mondiale, la distanza fra i ricchi e i poveri è cresciuta, la mobilità sociale si è ridotta e ciascuno è rimasto “bloccato” al posto ereditato nella società. Seguire un proprio autonomo percorso di vita appare arduo, specie per i più giovani. Il che, cosa ancora più grave, succede anche con riguardo a quei Paesi, come l’Italia, in cui non può negarsi che la garanzia dei diritti sociali e del lavoro e la progressività delle imposte non sono semplici opzioni politiche o morali, ma obblighi giuridici di rango costituzionale.

È, perciò, lecito domandarci come ciò possa avvenire nella vigenza di una Costituzione che tra i suoi principi fondamentali ha un articolo sull’uguaglianza sostanziale che consente ancora agli interpreti di definirla “all’avanguardia” rispetto alle altre Carte fondamentali dell’area occidentale.

Non è facile rispondere a questa domanda. I dati sulle disuguaglianze non testimoniano, infatti, solo le circostanze materiali in peggioramento che ho appena rilevato, ma, letti dal punto di vista giuridico, esprimono anche una riduzione dell’impatto del principio di uguaglianza sulla realtà. Accade così che, da una parte, la Costituzione, nella sua profetica invocazione di uguaglianza e giustizia, continua a presentarci le sue grandi promesse che – come diceva Calamandrei – “penetrano nei cuori e li allargano e che una volta intese non si possono più ritirare”; dall’altra parte, però, i fatti sembrano andare in un’altra direzione fino a indurre molti costituzionalisti a dire che il problema, a questo punto, è quello della vitalità della Costituzione nel suo complesso; è quello della crisi della sua forza normativa.

Cosa è successo, in particolare, in questi ultimi trent’anni? È successo, ad esempio, che a certe norme costituzionali, come quella del salario minimo, non si è mai data piena attuazione. Soprattutto, si è assistito ad un mutamento preoccupante di politiche di entrate e di spesa veicolate da numerose leggi, decreti e regolamenti. Così, la progressività del sistema tributario, che è lo strumento fondamentale di redistribuzione previsto dall’articolo 53 della Costituzione, è venuta gradualmente meno, travolta da imposizioni proporzionali, da detrazioni, deduzioni, tax expenditures, che hanno messo in crisi il sistema fiscale vigente, hanno limitato la progressività all’imposta sul reddito di lavoro dipendente e hanno consentito imposizioni piatte come la cosiddetta flat tax. Tipi di imposizione, tutte, che non sono coerenti con il dettato costituzionale.

Si pensi anche alle passate politiche di razionalizzazione della spesa pubblica, che hanno avuto come ultimo, debole baluardo la salvaguardia del loro “nucleo essenziale”, baluardo eretto, in verità, dalla sola Corte costituzionale. Non dobbiamo dimenticare che ad avallare questi processi è per di più intervenuta nel 2012, sotto la pressione della crisi finanziaria dell’eurozona, una revisione costituzionale (in particolare, dell’articolo 81 della Costituzione) che ha previsto l’ingresso nel testo della Costituzione del principio dell’equilibrio di bilancio e della sostenibilità del debito pubblico; un principio che, come ha rilevato Marta Cartabia (La Consulta ai tempi della crisi, in Il Sole 24 Ore del 29 novembre 2019), solo un’avveduta giurisprudenza costituzionale è riuscita a far convivere faticosamente con la garanzia dell’uguaglianza sostanziale e dei diritti sociali. Molti commentatori sono arrivati a dire che in questi ultimi anni è passata sotto i nostri occhi una serie di norme che dovrebbero essere definite a-costituzionali, se non addirittura anti-costituzionali.

Tutto ciò, evidentemente, è anche uno dei numerosi effetti della globalizzazione. Il mercato globale ha infatti sottratto agli Stati una serie di grandezze economiche che si sono rese indisponibili per il potere politico, rendendo impossibili le decisioni redistributive richieste dalle Costituzioni nazionali. L’effetto maggiore – più preoccupante e più difficile da combattere – è stato l’impossibilità di attuare politiche fiscali progressive, di incremento della spesa pubblica e di garanzie del lavoro.

Il che ci porta anche a concludere che il vero grande trionfatore di questi ultimi trent’anni in Italia non è stata la democrazia costituzionale, che non sono state mantenute le sue promesse di riduzione delle disuguaglianze e che è stato, invece, il capitalismo finanziario globale a mettere in moto un circolo vizioso che potrebbe arrivare a ribaltare le promesse di magnifiche e progressive sorti della democrazia, attivando così meccanismi di regressione democratica. (…)

Si dimentica così che l’uguaglianza fa parte a pieno titolo del patrimonio storico del costituzionalismo ed è fondamento della democrazia nelle sue varie articolazioni. Si tratta non della sola uguaglianza formale di fronte alla legge, intesa come divieto di discriminazioni legali ingiustificate, ma anche dell’uguaglianza nella tutela e nel godimento effettivo dei diritti fondamentali, primi tra tutti i diritti sociali. Non valorizzare come si deve l’uguaglianza, intesa in questo senso, e non assumerla come obiettivo essenziale della governance pubblica potrebbe addirittura tradire l’intera storia del costituzionalismo italiano. (…)

Più spazio all’intervento redistributivo dello Stato liberale

(Il) richiamo all’impulso morale e alla tensione etica dovrebbe essere messo al primo posto nella lotta alle disuguaglianze e dovrebbe tornare ad essere – come lo è stato negli anni Cinquanta e Sessanta – un fattore irrinunciabile del progresso sociale, dello sviluppo e del vivere civile. Dovrebbe essere, cioè, interpretato come una reazione al luogo comune nel quale spesso molti di noi indulgono, e cioè che, in fondo, in tema di governance e di scelte di politica economica e sociale tutti, nella sostanza, avanziamo nei confronti dello Stato le stesse richieste; abbiamo solo modi leggermente diversi per raggiungere gli obiettivi di sviluppo e di giustizia.

Tale modo di pensare rischia di portarci fuori strada. Dimentichiamo infatti, spesso, che i ricchi non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri o quella parte del ceto medio entrata da tempo nell’area della cosiddetta povertà relativa. Chi dipende dal posto di lavoro per la propria sussistenza e paga le imposte in base a ritenuta non vuole le stesse cose di chi vive di investimenti e dividendi e può permettersi di praticare sofisticate pianificazioni fiscali per sottrarsi, anche lecitamente, al pagamento del giusto tributo. Insomma, chi non ha bisogno di servizi pubblici o ne ha un bisogno limitato non cerca le stesse cose di chi dipende prevalentemente dal settore pubblico.

E la diversità di situazioni e di bisogni – aggravata ora dalla crisi pandemica – può generare, specie in momenti drammatici come quelli che stiamo vivendo, uno spaesamento dell’etica collettiva, un allentamento dei legami sociali e sempre maggiori diseguaglianze. (…)

Siamo tutti cresciuti nel rispetto dei principi fondamentali del cristianesimo, che sono la solidarietà, la sussidiarietà e la garanzia del bene comune, espressamente indicati dagli articoli 2, 3 e 118 della nostra Costituzione. Non possiamo, perciò, non sentire istintivamente, specie nei difficili momenti di crisi che stiamo attraversando, la necessità, da una parte, di abbandonare quelle teorie contrattualistiche e dei diritti primordiali che puntano ancora sull’autoreferenzialità del mercato e sulla neutralità degli strumenti di politica economica rispetto alle scelte degli operatori e, dall’altra, di dare invece ampio spazio all’intervento redistributore e allocatore proprio dello Stato liberale, condotto secondo una forte direzione morale e bilanciando i diritti proprietari con i diritti di cittadinanza. (…)

Proprio la crisi che stiamo attraversando ci dice che questo passaggio è cruciale e deve costituire un dato culturale, più che ideologico o dettato dalla sola contingenza: se ci sono disuguaglianze endemiche, la loro riduzione deve essere al primo posto tra gli obiettivi etici che uno Stato regolatore deve perseguire nel rispetto dei diritti fondamentali dei suoi cittadini sanciti dalla Costituzione e dei principi dell’ordinamento internazionale.

La disuguaglianza è la vera patologia della nostra epoca, è una grave minaccia al buon funzionamento di ogni democrazia, è la perdita di fratellanza e della coesione sociale. Come diceva Tony Judt, “La fratellanza, per quanto fatua quale obiettivo politico, è la condizione necessaria della politica”.

Potenziare la governance pubblica

Non sembra che il richiamo ad una più attenta governance pubblica sia stato, almeno finora, accompagnato da un’adeguata critica all’attuale diverso ordine istituzionale voluto dall’economia privata. Un ordine che – si è visto – ha il difetto di privilegiare i diritti del mercato a scapito dei diritti sociali, di rafforzare i vantaggi e le pretese di certi tipi di attori economici, politici e sociali e, nello stesso tempo, di ridurre quelli di altri, con gli effetti negativi sulla tenuta del principio di uguaglianza e sulla stessa democrazia liberale. Si pensi, solo per fare degli esempi, alle Over The Top del digitale, ai tycoons delle criptovalute e all’attivismo, dilagante e incontrollato, dei social media.

La pandemia sembra aver aggravato questa situazione. (…)

È evidente, perciò, che la via d’uscita da questa situazione non può che essere quella, indicata, di insistere nell’esplorazione di una zona intermedia, caratterizzata dalla possibilità di cambiare gli attuali schieramenti; una zona che deve appartenere a un settore pubblico mission oriented fortemente integrato nell’ordine mondiale e, più in particolare, in una Ue sempre più vicina al modello federale e capace di generare, in termini appunto di governance pubblica e convenzionale, effettivi risultati in funzione degli obiettivi di uguaglianza, giustizia e sviluppo economico-sociale che si intendono raggiungere.

Come diceva Habermas già prima che scoppiasse la pandemia, è più che mai urgente “riregolare” lo scatenamento dei mercati attraverso un’auto-autorizzazione della politica nei confronti dell’economia. Il che non significa certo tornare ad una ingombrante nozione di sovranità che riposi esclusivamente sulla superiorità del potere statale rispetto alle altre forme di potere e, perciò, pensare ad un hard power pubblico che si nutre esclusivamente di modalità prescrittive e gerarchiche. Significa solo che tale potere, lungi dal determinare sovranismi, deve essere maggiormente integrato nell’ordinamento internazionale ed attingere anche a nuove regole e procedure soft che segnino una discontinuità rispetto al passato, lo rapportino meglio con la società.

Con riferimento specifico alla crisi da pandemia che ha coinvolto i Paesi dell’Unione Europea, l’attuazione, da parte delle autorità nazionali, del Pnrr dovrebbe essere – anzi è – uno degli strumenti, il più importante, di questa politica. Il Next Generation Eu rappresenta, indubbiamente, un’inversione di rotta rispetto al più recente passato che, pur non realizzando il sogno di effettiva integrazione politica perseguito nel 1992 con il Trattato di Maastricht, consente tuttavia ai Paesi membri di affidarsi ad un ente superiore comune per affrontare uniti, sul piano economico, finanziario e fiscale, la sfida eccezionale anti-Covid. (…)

Rilanciare la sussidiarietà orizzontale

Come ci insegna la dottrina storica della Chiesa e come espressamente ha detto Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate, ci dovrebbe essere anche un privato che non si limita a perseguire i propri interessi individuali e d’impresa, ma che si organizza in comunità, in associazioni del terzo settore, capaci di occuparsi del bene comune al pari del settore pubblico.

In tutti questi casi la sottrazione di spazi alla statualità da parte dei privati è più che lecita, anzi opportuna, purché essa avvenga nell’ambito di un circuito virtuoso nel quale, lungi dal sottrarre spazi allo Stato, si inseriscono quei privati cittadini attivi, singoli e associati, che intendono cooperare per la soddisfazione dell’interesse generale.

Ciò si chiama sussidiarietà orizzontale ed è scritto nell’articolo 118 della nostra Costituzione e vuol dire perseguire l’obiettivo di garantire, attraverso la gestione solidale ed economica del bene comune da parte dei soggetti privati, quelle condizioni di benessere e di sviluppo della persona che lo Stato o l’ente locale da soli non sono in grado di assicurare pienamente. Vuol dire, in particolare, che nella complessità della società contemporanea ciò che lo Stato e il mercato non possono fare, lo devono fare i cittadini attivi consorziandosi, organizzandosi, associandosi, riunendosi in cooperativa, erigendo fondazioni.

Si tratta di passare, seguendo la stessa via dei movimenti di volontariato, dall’individualismo proprietario alla solidarietà e all’individuo sociale, dal modello dell’amministrazione bipolare a quello dell’amministrazione condivisa, da una spesa posta a totale carico dello Stato ad una ripartita in funzione dell’interesse a partecipare del cittadino attivo.

Dobbiamo però prendere atto che, almeno allo stato attuale, questi obiettivi non sono stati del tutto raggiunti. Lo Stato e gli altri enti territoriali, da una parte, e la società civile, dall’altra, si sono sempre inseguiti, ma un collegamento reale e un effettivo dialogo fra di loro non ci sono mai stati. C’è stata, semmai, più dipendenza necessitata di queste entità dallo Stato-autorità piuttosto che dalla società, senza che finora sia stato possibile tanto ripensare le strutture della Pubblica amministrazione secondo un criterio di prossimità al cittadino, quanto passare da un modello burocratico e meccanico ad un’organizzazione più flessibile, più organica ed efficiente.

Resta, perciò, ancora molto da fare se si vuole valorizzare il principio di sussidiarietà anche nella direzione dell’integrazione pubblico-privato, del rilancio dello sviluppo e della conseguente riduzione delle disuguaglianze.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI