Adesso si cominciano a contare le ore, non tanto i giorni. Negli Stati Uniti la corsa alla Casa Bianca è già cominciata, con 15 milioni di americani che hanno già votato con l’early voting (il voto anticipato), di persona oppure per posta. Ora Kamala Harris e Donald Trump, nell’ultima settimana, si impegneranno ancora di più negli ultimi sette Stati in bilico nelle previsioni degli analisti: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Arizona, Nevada, Georgia, North Carolina.



È evidente che la nomina del nuovo presidente interesserà in primo luogo gli States e le divisioni profonde del “sogno americano”. Nel frattempo, il tante volte sbandierato “isolazionismo americano” è un reperto storico finito definitivamente durante la seconda guerra mondiale, in particolare dopo l’attacco a Pearl Harbor fatto dai giapponesi nel dicembre del 1941. Dopo l’intervento in guerra e il ruolo acquisto dagli USA nel 1945, le elezioni americane le vivono con apprensione o con speranza quasi tutti i Paesi del mondo.



È quasi superfluo affermare che nell’attuale situazione drammatica, con una polveriera come il Medio Oriente, dopo l’elezione del nuovo presidente ci saranno meno dubbi su ciò che accadrà tra Israele e Iran, tra Israele e palestinesi, tra Israele e gli altri Paesi dell’area mediorientale. Quella zona del mondo ricca di petrodollari e di insanabili contrasti religiosi (si pensi al Libano e al rapporto tra Arabia Saudita e Iran) può riservare qualsiasi tragica sorpresa e aggravare, con quella che si chiama escalation, una crisi sempre più acuta dell’ordine mondiale. Sbaglieremo, ma l’attacco israeliano di sabato notte è solo un pesante avvertimento al regime degli ayatollah di Teheran.



Nessuno sa con precisione quale sia stata l’intensità del bombardamento. Gli iraniani minimizzano i danni, ma non sembrano intenzionati a una “pronta risposta”. Continuano piuttosto a minacciare “la scomparsa di Israele e degli ebrei”, favorendo in questo modo la destra oltranzista israeliana di Benjamin Netanyahu e quella religiosa che sogna la “grande Israele”, e snatura quasi la realtà positiva, di riparazione dopo l’Olocausto: quella del ritorno ebraico in “Terra Santa”.

L’ultimo attacco israeliano è stato consigliato negli obiettivi dal presidente Joe Biden e da Kamala Harris, ma è legittimo chiedersi che intensità avrebbe avuto l’attacco su Teheran, se a Washington ci fosse stato Donald Trump.

Diciamolo con franchezza, senza giri di parole e generici “appelli alla pace”: senza concreti compromessi e un ritorno sostanziale alla diplomazia, l’attuale ordine mondiale già in crisi è destinato a peggiorare ancora di più. È una crisi gravissima e non viene mai spiegata sino in fondo.

Facendo un’analisi anche sommaria, possiamo partire dall’ONU, dall’Organizzazione delle Nazioni Unite. Che cosa conta realmente oggi? È contestata e più volte richiamata a una riorganizzazione. Il suo segretario generale, Antonio Guterres, raccoglie continui dissensi, al punto che stringe la mano a Vladimir Putin (che è colpito da un mandato internazionale di arresto), mentre il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si rifiuta di incontrarlo. Il Consiglio di sicurezza dell’ONU, l’organismo che dovrebbe decidere gli interventi internazionali non riesce più a decidere nulla e sopporta pure che gli israeliani sparino sui caschi blu.

Ammettiamolo con amarezza: l’ONU oggi ricorda le Nazioni Unite proposte anche dal presidente americano Woodrow Wilson nel 1919 a Versailles dopo la prima guerra mondiale. Al proposito, John Maynard Keynes, che partecipò ai lavori di Versailles per le questioni finanziarie, definì Wilson “un sognatore”. Wilson appoggiò la proposta, ma poi lui e gli americani non entrarono mai nelle Nazioni Unite e non riconobbero mai la pace di Versailles. Un unicum storico.

Nel quadro internazionale ci sono poi i resti dell’Unione Sovietica, diventata una potenza in declino con quindici repubbliche nate nel 1991: alcune contestano Mosca, altre la sopportano. Poi c’è l’Ucraina in guerra dopo l’invasione decretata da Putin. La Russia è in crisi, ma la sua potenza militare nucleare è ancora intatta e pericolosa.

Infine c’è il nuovo arrivato, la Cina, che ha fatto passi da gigante nel giro di trent’anni. Oggi la Cina vende più automobili di Stati Uniti ed Europa messe insieme, produce il 50% dell’acciaio mondiale. Nel 2035, secondo alcuni calcoli, avrebbe tante testate nucleari come Russia e America messe insieme.

Non parliamo infine dell’Unione Europea, che se attualmente corre verso l’agonia, come dice Mario Draghi, appare come una realtà geo-politicamente ininfluente.

È comunque semplice ormai constatare che il dominio americano sul mondo, nonostante la fine della guerra fredda, si è paradossalmente sfaldato nonostante il crollo del Muro di Berlino, prima avvicinandosi alla Cina, nel 1973 con la politica di Kissinger, poi con l’entrata della Cina nella WTO nel 2001. Ora gli Stati Uniti sanno che devono fare i conti sia con la Russia, sia, sopratutto, con la Cina. E in più con i BRICS, tutti i Paesi emergenti che si oppongono per interessi generali all’Occidente e che sono entrati nell’orbita di Russia e Cina.

Che cosa occorrerebbe in un simile situazione, guardando sopratutto al Medio Oriente? Una grande conferenza di pace, mondiale, con una rinnovata classe dirigente che comprendesse la grande svolta epocale che è avvenuta da trent’anni a questa parte. Quindi le Nazioni Unite, l’Onu rinnovato, autorevole e sorretto da tutti i Paesi del mondo. In più l’accettazione da parte delle potenze e dei Paesi emergenti di una egemonia pluralista. Sembra un sogno!

In realtà, pur di evitare una rottura dell’ordine, cioè una guerra mondiale, basterebbe una grande tregua e che le tre potenze ormai storiche, come Stati Uniti, Cina e Russia limitassero la loro influenza su tutto il mondo e si riservassero di “guardare” con attenzione ai loro problemi geopolitici immediati pur di evitare un conflitto mondiale.

Qui si presenta una scala di pericolosità. Si va progressivamente complicando la questione Taiwan, tra Cina e Stati Uniti. Ma si potrebbe anche prolungare la soluzione trovata da Kissinger e Zhou Enlai. C’è il dramma dell’Ucraina, ma dopo quasi tre anni di guerra, alla fine conviene anche alla Russia trovare i termini di una tregua ragionevole, magari risolvibile in un tempo lungo senza armi. Ma il nodo vero e più difficile è ormai un altro: il Medio oriente. Vinca la Harris o vinca Trump, sarà complicatissimo rompere un asse storicamente solido come quello tra Stati Uniti e Israele.

L’intelligenza politica degli USA potrebbe controllare Israele usandolo come deterrenza nei confronti di tutto il Medio Oriente. Tuttavia anche in questo senso, l’ipotesi sembra un sogno o un’illusione. Intanto, ovunque si sviluppa una radicalizzazione tra posizioni contrarie. Israele vorrebbe isolare e svuotare di forza l’attuale Iran, colpendo Hezbollah in Libano. Può dire di no la Harris? Può impedirlo Trump? Il vero pericolo sta proprio lì.

I tanti anni sprecati tra i contrasti in quella zona hanno provocato sei guerre tra palestinesi e israeliani, una sequenza di invasioni del Libano, un mancato aiuto alla dirigenza palestinese e, dopo la morte di Rabin e Shimon Peres, troppa libertà ai movimenti dei nuovi governi israeliani. È qui che sta la “polveriera” che può annichilire il mondo intero. Alla fine la storia presenta sempre il conto.

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