Il diritto oggi è al centro di strategie e sfide globali. Enti statali e non si combattono attraverso quella che viene definita “guerra normativa”, ovvero l’utilizzo strumentale e strategico dei mezzi legali e della manipolazione della legge per raggiungere obiettivi politici, militari, economici e così via.

Tuttavia, l’analisi che oggi si compie della guerra normativa è, a mio parere, limitata e insufficiente. Infatti, si focalizza prevalentemente su quelle “operazioni” che vedono l’uso della legge come arma offensiva per raggiungere scopi militari e per conseguire obiettivi geopolitici o geoeconomici. Sebbene questi ambiti siano di indubbia rilevanza, la guerra normativa si estende oltre, abbracciando un campo di azione molto più ampio e pericoloso: da decenni si combatte per il dominio della cosiddetta “globalizzazione giuridica”, consistente nell’imposizione del proprio modello giuridico a livello globale. L’obiettivo finale è standardizzare diritto, professioni e formazione sul proprio modello.



La posta in gioco è enorme. Il diritto rappresenta uno strumento di potere senza pari, dotato della capacità di modellare e trasformare non solo le società, ma anche le relazioni internazionali. Proprio per questo motivo, da sempre, l’obiettivo primario del potere è quello di impossessarsi del diritto per modellarlo secondo i propri desideri e, in questo modo, progettare la propria utopia, la propria visione di mondo.



Come evidenzia Katharina Pistor, professoressa di diritto comparato nella Columbia Law School, nel suo libro The Code of Capital (Princeton University Press, 2019), oggi i nuovi diritti, ovvero gli strumenti con cui si costruiscono o ricostruiscono le società, sono creati principalmente negli studi legali globali anglo-americani, piuttosto che dai legislatori nazionali o sovranazionali.

Davide B. Wilkins, professore di diritto e direttore della facoltà del Center on the Legal Profession presso la Harvard Law School, sottolinea, poi, come gli avvocati aziendali – in prima linea in tre processi di globalizzazione: globalizzazione delle aziende, globalizzazione dei mercati e globalizzazione della regolamentazione – rivestano, come nuove élite legali, un ruolo centrale nella creazione delle regole e istituzioni internazionali, nella revisione delle leggi nazionali e internazionali, nella trasformazione delle strutture aziendali e formino, sostengano e diffondano le loro concezioni di diritto come ingegneri sociali e legislatori statali.



Sono ormai numerosissimi gli studi accademici sulle strategie di potere, non solo episodico ma soprattutto sistemico, poste in essere da questi “agenti” della globalizzazione. Consapevoli che il potere, più che un possesso, è una relazione, queste aziende agiscono formando alleanze strategiche, esercitano attività di lobbying e producendo visioni del mondo condivise e rifiuto delle alternative, che si concretizzano nel descrivere altri sistemi giuridici come problematici e rafforzando l’adozione di procedure standardizzate che riflettano i loro interessi e quello dei loro clienti.

Attori egemonici non solo nei processi di globalizzazione economica, ma anche della conoscenza, per raggiungere i loro obiettivi investono ingenti risorse in prestigiose istituzioni di ricerca, laboratori, università, nello sviluppo di propri think-tank e nella pubblicazione e promozione di libri a livello globale che sostengono la loro visione del mondo. Anche le riviste di management, che offrono accesso gratuito alla loro documentazione, standard e linee guida, diventando così modelli de facto da utilizzare in tutto il mondo, sono uno strumento importante. Tuttavia, uno degli obiettivi più importanti di questa guerra, visto il ruolo cruciale svolto dal diritto e dagli avvocati nella costruzione delle società, riguarda la formazione degli avvocati di domani.

Un obiettivo non facile da raggiungere in alcuni Paesi, come ad esempio l’Italia, a causa delle diverse culture nel campo legale: il modo in cui l’avvocato italiano dà un senso e costruisce il mondo professionale è diverso da quello dell’avvocato inglese o americano. In Italia, l’accento è posto sulla padronanza dei principi giuridici e sulla loro applicazione deduttiva. Si tratta di un sistema di proposizioni logicamente interconnesse che è impermeabile alle pressioni economiche del mondo degli affari. Al contrario, nel modello anglo-americano il punto di partenza per gli avvocati è il risultato desiderato dal cliente da raggiungere utilizzando leggi e precedenti, interpretandoli, allungandoli e riscrivendoli per sostenere gli obiettivi commerciali richiesti.

Questo diverso approccio alla pratica legale si riflette anche nella formazione professionale. Le università italiane cercano di formare professionisti indipendenti e versatili, mentre la formazione inglese è maggiormente incentrata sulla preparazione degli avvocati verso una specializzazione all’interno di uno studio legale.

Questa differenza si evidenzia anche dal fatto che nel Regno Unito non è obbligatorio conseguire una laurea in legge per diventare avvocato. Oltre il 40% degli avvocati impiegati da studi legali globali a Londra non possiedono una laurea in giurisprudenza, ma vengono istruiti prevalentemente dalle aziende attraverso brevi percorsi di formazione professionale basati sulle loro esigenze e utilizzando, come parte della formazione, i propri moduli interni, file e precedenti.

Questi programmi di formazione interna, spesso etichettati come “accademie” o “università”, sono progettati per socializzare e formare i tirocinanti alla cultura lavorativa e sulle migliori pratiche adottate dell’azienda. Gli effetti più o meno intenzionali di queste accademie sono la costruzione e ricostruzione dell’identità: “chi sono e come dovrei agire”. L’adesione alle pratiche dell’azienda viene poi ricompensata con valutazioni positive, avanzamento di carriera e premi in denaro. Questo consente alle aziende non solo di introdurre immediatamente i nuovi arrivati agli standard aziendali, ma anche di “indottrinare” i tirocinanti con il proprio diritto, metodo di pratica legale e visione del mondo.

Quando, agli inizi degli anni 90, le grandi società globali fecero ingresso in Italia, le differenze tra sistemi giuridici, approccio al problema legale e formazione dei tirocinanti generarono non pochi problemi, costringendole ad un processo di ibridazione che influenzò significativamente il loro modello di gestione aziendale e l’obiettivo di standardizzare diritto, professione e formazione sul proprio modello.

Questo problema ha incentivato le aziende a cercare un controllo più diretto sulla formazione e gestione del capitale intellettuale. Due imprese straniere che hanno acquisito le principali case editrici giuridiche italiane, si sono affermate come leader nella formazione professionale e nei servizi di database. Le banche dati giuridiche rivestono un ruolo cruciale nell’influenzare il pensiero nel campo del diritto. I professionisti, infatti, quando si trovano di fronte ad un problema, consultano le banche dati per ottenere le informazioni che contribuiranno a costruire le loro argomentazioni. Tuttavia, queste informazioni spesso risultano identiche per tutti, portando ad un processo di risoluzione dei problemi standardizzato ed uniforme.

La perdita di controllo sulle principali case editrici e riviste del settore avrà, poi, conseguenze significative anche nell’ambito universitario, data la dipendenza dalle pubblicazioni per il reclutamento dei professori. Inoltre, la crescente enfasi sui sistemi di pubblicazione e classificazione rischia di trasformare, se non lo ha già fatto, la creazione della conoscenza in un processo di scambio: pubblicare articoli su riviste accademiche di alto livello, o presunte tali, per far avanzare la propria carriera accademica.

Insomma, stiamo assistendo a dei cambiamenti radicali nel modo in cui i futuri avvocati vengono formati nel diritto e nella pratica legale, che stanno erodendo il vecchio modello influenzato dalle istituzioni. La deregolamentazione, il reclutamento selettivo e la formazione da parte di queste multinazionali del diritto suggeriscono, infatti, che il percorso universitario tradizionale sarà probabilmente solo uno dei vari canali di formazione per i futuri avvocati.  Già oggi, se osserviamo le opportunità di lavoro offerte da questi attori globali in Italia, troviamo che, anche in campi con una forte componente legale, la laurea in giurisprudenza non è richiesta.

Questa importante trasformazione in atto non mi pare abbia destato, nelle istituzioni, alcuna particolare preoccupazione. Ritengo che ciò sia principalmente dovuto ad una sottovalutazione del problema e delle sue implicazioni: con la globalizzazione e la deregolamentazione, l’istruzione legale viene sempre più catturata dalle grandi organizzazioni, e questo avrà grandi implicazioni non solo per la professione legale, ma per la società nel suo complesso, dal momento che queste imprese non si limitano a fornire servizi, ma sono gli artefici di un nuovo diritto che sta plasmando le società.

In altri termini, le nostre istituzioni sono consapevoli che stanno delegando ad altri il futuro della nostra società?

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