Con l’insediamento del governo M5s-Pd sembra per il momento allontanato il “pericolo” che gli italiani possano esprimere il proprio parere nelle urne, e non più solo nei sondaggi. Viene così confermato quanto diceva il costituzionalista Mario Esposito sul Sussidiario un paio di settimane fa: “sembra quasi essersi realizzato un antico sogno di alcuni Paesi europei: governare gli italiani col loro consenso. Oggi siamo un Paese costituzionalmente soggetto, per propria ‘libera’ determinazione costituzionale, ad un ‘concerto’ di Stati stranieri”. E quindi niente voto “nel momento in cui la consultazione popolare lasci presagire un esito che possa causare un conflitto nelle relazioni con l’Ue”.
Il nuovo governo sembrerebbe rispondere a un preciso dominus straniero: il presidente francese Emmanuel Macron. È questa l’articolata opinione di Giulio Sapelli, che indica anche il ruolo che l’Italia avrà in futuro: una piattaforma logistica nel Mediterraneo necessaria alla Francia per i suoi piani espansionistici in Africa. Su questo sfondo si può leggere anche quanto Nicola Berti scrive sull’incontro a Ventotene del Movimento Federalista Europeo con la partecipazione di Mario Monti, Romano Prodi, Silvie Goulard e Sandro Gozi. Quest’ultimo, già sottosegretario alla presidenza nei governi Renzi e Gentiloni, è stato recente protagonista di un “sorprendente” arruolamento nell’esecutivo francese. La Goulard, designata da Macron commissario Ue per la Francia, è stata consigliere politico di Prodi quando era presidente della Commissione europea. Prodi, a sua volta, ha recentemente parlato di “coalizione Orsola” con chiaro riferimento a Ursula von der Leyen, eletta presidente della Commissione grazie ai voti dei pentastellati. Insomma, a pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina.
Sulle stesse linee si muove l’intervento di Paolo Annoni, che sottolinea in particolare lo spostamento dell’equilibrio di potere dentro l’Ue a favore della Francia e a spese della Germania. In effetti, il rigido sistema-Paese francese, nazionalista e sovranista, riesce a reggere meglio la situazione di quello tedesco, altrettanto nazionalista e sovranista, ma reso più vulnerabile dalla sua struttura federale. E dall’ancora irrisolto problema delle differenze tra Ovest e Est del Paese, come anche dimostrato dalle recenti elezioni in Sassonia e Brandeburgo. L’equilibrio nella diarchia che ha finora condotto l’Ue si sta quindi modificando in favore della Francia, come sostiene anche The Economist, commentando i risultati dell’incontro a Biarritz del G7.
Rimane però impensabile che Berlino sia disposta a cedere il comando a Parigi. Si riaffaccia perciò l’ipotesi di una rottura dell’Unione Europea, un’ipotesi sul tappeto già da tempo. Tuttavia, non si tratterebbe più di un allontanamento dei Paesi deboli da parte dei “virtuosi” guidati dalla Germania: ciò che si prospetta è la disunione dell’Unione in tre hub, Berlino, Parigi e Londra, attorno ai quali potrebbero nascere nuovi raggruppamenti di Paesi.
Nel Regno Unito lo scontro sulla Brexit ha assunto toni roventi. Il premier Boris Johnson aveva ottenuto il consenso della Regina alla sospensione dei lavori parlamentari per cinque settimane, così da impedire lo stop alla Brexit no deal da lui sostenuta se Bruxelles non farà ulteriori concessioni. Prima della chiusura, la Camera dei Comuni ha però approvato una legge che impegna il primo ministro a chiedere una nuova proroga di tre mesi nelle trattative con l’Ue. La legge è passata anche alla Camera dei Lord e, inoltre, i Comuni hanno anche respinto la richiesta di Johnson di indire nuove elezioni in ottobre. Da parte sua, Johnson ha espulso dal gruppo parlamentare Tory una ventina di deputati che hanno votato queste leggi.
Anche se Boris Johnson, per certi aspetti, può sembrare una versione colta di Donald Trump, è difficile pensare che si muova senza una precisa, magari azzardata strategia, come del resto “The Donald”. Da un lato vi sono senza dubbio motivazioni di politica interna, come sfruttare le controversie interne ai Labour e togliere spazio agli estremisti del Brexit Party di Nigel Farage. Dall’altro, si può ipotizzare che Johnson voglia approfittare delle divisioni interne all’Ue per ottenere migliori condizioni per l’uscita dall’Unione, per lui comunque incontrovertibile. Anche dietro la richiesta dei suoi avversari di prorogare il termine delle trattative si può intravvedere la speranza che il nuovo assetto a guida francese possa essere più favorevole a Londra.
Una componente rilevante in questo quadro complesso è la posizione di Washington. A differenza di Barack Obama, la cui ostilità alla Brexit provocò una rude reazione proprio da parte di Johnson, Trump sembra appoggiare l’ipotesi di uscita dell’Uk dall’Ue. Probabilmente, Trump considera un’Unione Europea consolidata sotto una incontrastata guida tedesca più un pericolo che un sostegno al suo obiettivo di fare “di nuovo grande l’America”. Una Ue simile potrebbe agire da “terzo incomodo”, piuttosto che da alleato obbediente.
Molto meglio, perciò, un Regno Unito indipendente che può riprendere un suo proprio ruolo atlantico, fiancheggiando concretamente gli Usa nei Paesi del Commonwealth, in buona parte dell’Africa, in Medio Oriente e in Asia. Altrettanto utile, una Francia che controlli il Mediterraneo (e qui si gioca il ruolo dell’Italia nei modi già citati) e buona parte dell’Africa, così come parte del Medio Oriente. A Parigi potrebbe essere lasciato anche un margine di manovra con gli avversari di Washington, vedasi Cina, utile per trattative che sarebbe “brutto” effettuare alla luce del sole.
E la Germania? In questo ipotetico scenario non avrebbe molte alternative: o rassegnarsi a giocare come limitata potenza regionale, o tornare a Canossa, pardon, a Washington.