Sin dalla rivoluzione teocratica del 1979, l’Iran ha coltivato una rete di proxy in tutto il Medio Oriente. Negli anni, con questa tattica, ereditata dai sistemi dell’ex URSS, Teheran ha costruito passo dopo passo in Iraq, Libano, Siria e Yemen “l’asse della resistenza” corrompendo, infiltrando, minacciando ed eliminando gli oppositori negli apparati del potere locale.
Dalle basi così costruite ha attaccato Israele creando la maggiore fonte di instabilità per tutto l’Occidente. Pensiamo agli Houthi, sostenuti dall’Iran, che hanno conquistato la città più grande dello Yemen e stanno tutt’ora tenendo sotto scacco il traffico navale nello stretto di Bab El Mandeb con aggravi di costi di trasporto marittimo mondiale che nell’ottobre 2024, secondo Shipping Italy, ammontano in percentuale al 400%. Tanto che i dirigenti della Repubblica Islamica si vantavano di controllare quattro capitali arabe: Baghdad, Beirut, Damasco e Sanaa.
Ma gli eventi degli ultimi 18 mesi hanno rivoluzionato tutti gli equilibri regionali. E dopo Beirut e Damasco oggi l’Iran rischia di perdere anche Bagdad, il possedimento più ricco e che fino ad ora, grazie alle sue risorse e strutture, depredate dagli iraniani, ha fatto galleggiare l’economia di Teheran anche in barba alle pesanti sanzioni.
Oggi il governo iracheno è guidato dal primo ministro Mohammed Shia al Sudani con una coalizione strettamente alleata dell’Iran.
Ma il governo al Sudani, nel 2025, ha fatto tre accordi con gli Stati Uniti: l’annullamento di un mandato di arresto per Donald Trump per aver ordinato l’uccisione del generale Qassem Soleimani comandante della forza Al Quds iraniana a Baghdad durante sua la precedente amministrazione; l’accordo di rilasciare la ricercatrice di Princeton Elizabeth Tsurkov, che è stata tenuta in ostaggio da Kataib Hezbollah, una milizia sostenuta dall’Iran; e la firma di un emendamento fondamentale al bilancio che ha permesso ai curdi iracheni di siglare un protocollo per la riapertura dell’oleodotto Kirkuk-Ceyhan sotto controllo USA.
Secondo Foreign Affairs questi sarebbero sintomi che Bagdad stia uscendo dall’orbita di Teheran. Secondo gli esperti di Foreign Affairs, inoltre, Washington dovrebbe approfittare di questo momento per ridurre il livello di controllo iraniano in Iraq, con una diplomazia dura, la minaccia di ulteriori sanzioni e operazioni di intelligence, attuando un cambio di rotta per gli USA.
Le ultime amministrazioni USA infatti hanno ignorato le attività terroristiche iraniane, perché smantellare l’enorme rete regionale di proxy dell’Iran era considerato un processo molto complesso, visto anche il vigore e l’aggressività del regime. Iraniano. Ma caduto Assad e indebolito Hezbollah, con uno schema a buccia di cipolla, gli USA avrebbero ora la possibilità di debellare l’influenza iraniana anche in Iraq, indebolire quindi la Repubblica Islamica e forzare un accordo sul nucleare iraniano.
Dal canto suo, Teheran non solo rifiuta ogni prospettiva di trattativa, ma all’inizio ha anche negato di aver ricevuto alcuna comunicazione dagli USA recante una richiesta di incontro. Per non sbagliare, ha fatto anche dimettere il moderato vicepresidente con delega agli affari strategici Mohammad Javad Zarif, lo stesso che aveva condotto il precedente accordo sul nucleare iraniano nel 2015.
E con questo hanno anche dato un segnale forte al presidente Pezeshkian. Non si tratta con Washington. Alla fine, non potendo negare, la guida suprema Ali Khamenei ha respinto fermamente la proposta definendola un tentativo di inganno internazionale.
Ma questo non ci deve sorprendere: il regime teocratico è cosi in difficolta per tutti i problemi e tutte le sconfitte subite negli ultimi anni da sapere che non solo ogni concessione, ma ogni apertura al dialogo apparirebbe come ammissione di debolezza e aprirebbe pericolose crepe nella tenuta esterna soprattutto verso i nemici internazionali, ma anche verso le residue forze dei clientes alleati.
Anche per la tenuta interna sarebbe un problema non da poco. Come dire che la Repubblica Islamica ha superato il punto di non ritorno ed ogni concessione in quanto tardiva non può che avere effetti distruttivi per il regime.
In merito al dossier iraniano, il ministero degli esteri cinese ha comunicato che ieri si sarebbe tenuto presso la propria sede pechinese un incontro conoscitivo sulla situazione tra i viceministri degli esteri di Cina Russia e Iran. Visto il livello dei partecipanti l’incontro servirà solo a condividere visioni ed obiettivi dei regimi alleati.
Ma la condivisione potrebbe inserire ulteriori tessere nel domino iraniano, visto che comunque a Mosca ma soprattutto a Pechino hanno interesse a mantenere il focolaio di instabilità mediorientale per impedire a Washington di concentrare le forze.
L’intreccio di interessi e vincoli internazionali fa del futuro del nucleare iraniano uno dei dossier più difficili e più urgenti sulla scrivania di Donald Trump. Si tratta di evitare che un’azione mal ponderata trasformi l’Iran e il suo mosaico etnico, fino ad ora sostanzialmente stabile anche se surriscaldato, in un altro Afghanistan.
Poiché se il rude mercantilismo di Trump non portasse risultati, o peggio ancora se ogni tentativo di negoziato venisse respinto dagli ayatollah arroccati nella detenzione del potere, si aprirebbe la strada ad un molto rischioso progetto di azione militare nello scacchiere.
Bisognerebbe allora rispondere a una serie di domande tattiche e strategiche per debellare il programma nucleare iraniano, ma soprattutto prevedere come potrebbero rispondere le varie anime dell’ex impero persiano ad un attacco militare, perché una guerra potrebbe portare ad una successiva fase di stabilità. Facendo deflagrare con conseguenze inimmaginabili i territori coinvolti.
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