Se qualcuno pensava davvero che la guerra tra Hamas e Israele potesse restare confinata nella Striscia di Gaza, gli ultimi bollettini stanno a dimostrare il contrario. Ovvero un allargamento del conflitto, in una metastasi che parte da lontano, e che stavolta vede sinergie tra i due grandi mondi islamici, quello sciita (Iran, Iraq, Siria, Yemen) e quello sunnita (preponderante e presente, oltre che a Gaza, in Arabia, Giordania, Egitto, Turchia, Pakistan, ma suddiviso in più “varianti”), storicamente divisi sull’interpretazione del vero discendente di Maometto, ma adesso più o meno alleati nelle loro ragioni sociali: la terminazione dello Stato di Israele. Perfino l’Arabia Saudita (85% della popolazione sunnita, con una dottrina imperante wahhabita, molto intransigente), che stava affrontando un difficile avvicinamento con Tel Aviv, ha cancellato gli incontri previsti, congelando quella road map, e confermando così che uno degli obiettivi dell’attacco delle brigate al-Qassam del 7 ottobre (con i combattenti esaltati dalle anfetamine) era esattamente il crollo di quell’inedito ponte.
Le periferiche della guerra sono esplose a nord, al confine con il Libano, dove il governo si conferma una volta di più impotente ad arginare i terroristi di Hezbollah (il “partito di Dio”), organizzazione paramilitare finanziata palesemente dall’Iran (il regime “illuminato” che ammazza le ragazze senza velo) con circa 700 milioni di dollari ogni anno, che conta circa 100mila combattenti e un arsenale fatto di un variegato bouquet missilistico (dai più basici Katyusha ai più sofisticati Yakhont antinave). Ma tra le armi più utilizzate in questa guerra figurano anche i mortai da 120 millimetri M48 (made in Iran), le mine anticarro YM-3, razzi anticarro PG-7VR, sistemi missilistici a guida automatica Ra’d-T, razzi Misagh, e i missili a corto raggio Fajr-3, i Fajr-5 e Zelzal, tutti made in Iran, così come i droni Ababil-2, evoluzione degli Shahed che Teheran ha fornito a Mosca. Ed ancora una volta sono arrivati dall’Iran anche i parapendii utilizzati da Hamas, i Saberin.
La pioggia di questi razzi sui territori di confine israeliani è continua: l’ultimo insediamento colpito è stato Metulla, a poca distanza da Mazraat Sardah e Rab Thalathine. Ma non sono solo obiettivi israeliani nel mirino dei terroristi: alcune basi americane in Iraq e Siria sono state già più volte colpite da attacchi portati da droni. L’altro giorno un cacciatorpediniere della US Navy, l’USS Carney) dislocato nel Mar Rosso ha abbattuto tre missili e vari droni lanciati dai ribelli Houthi (ramo sciita degli Zayditi) nello Yemen, ordigni che seguivano una rotta diretta in Israele, mentre un altro missile colpiva un non meglio identificato “centro di supporto diplomatico” vicino all’aeroporto di Baghdad. Droni e razzi anche sulla base aerea di Ain al-Asad, che ospita forze statunitensi nell’Iraq occidentale. E attacco con droni anche alla base Usa di Al Tanf, in Siria. Tutte azioni praticamente simultanee, che possono far ipotizzare una regìa comune, presumibilmente iraniana.
Nel tentativo di evitare uno sconfinamento ancora maggiore del conflitto, e il coinvolgimento diretto di altre potenze, gli Stati Uniti stanno rafforzando il dispiegamento deterrente nell’area. Oltre alla portaerei USS Gerald R. Ford (CVN-78), della quale abbiamo già riportato il dettaglio del suo gruppo di battaglia, è stata schierata anche la USS Dwight D. Eisenhower (CVN-69), con il suo gruppo che vede l’incrociatore lanciamissili USS Philippine Sea (CG 58), il cacciatorpediniere lanciamissili USS Gravely (DDG 107) e il cacciatorpediniere lanciamissili USS Mason (DDG 87).
Anche la “Ike”, inizialmente, era stata destinata al Mediterraneo orientale, ma il segretario alla Difesa Lloyd Austin ne ha annunciato un cambio rotta, con la sua redistribuzione nel Golfo Persico, proprio in risposta all’escalation, con gli attacchi Iran-guidati alle basi militari statunitensi in Iraq e Siria. Le due portaerei, comunque, hanno portato nel quadrante la forza di circa 90 aerei da combattimento e numerosi elicotteri. Ma sono state rafforzate anche le forze aeree a terra, con l’arrivo degli F-15, F-16 e A-10C (le cannoniere dell’aria, particolarmente adatte agli attacchi al suolo contro mezzi corazzati) del 494th Expeditionary Fighter Squadron e del 354th Expeditionary Fighter Squadron. Le basi Usa di dislocamento aereo e terrestre sono tante: si va dall’aeroporto vicino a Thumrait, nel governatorato di Dhofar, in Oman, alla base di Al-Dhafra ad Abu Dhabi, a camp Buehring, camp Arifjan e camp Patriot in Kuwait, e all’insediamento più grande: Al-Udeid, in Qatar, dove ha sede anche il comando Usa per il Medio Oriente.
La postura assunta dagli Stati Uniti è evidente: appoggio e protezione allo Stato di Israele, deterrenza per gli Stati musulmani confinanti, ma anche un consistente sostegno economico per i civili palestinesi confinati a Gaza e costretti a subire le conseguenze dei sanguinosi raid di Hamas. Ma non si può ignorare che proprio i palestinesi hanno fatto sì che Hamas nelle elezioni del 2006 superasse nelle urne l’altro partito, Fatah, sempre islamico ma decisamente più moderato nel suo riconoscimento di Israele. Oggi Fatah resiste solo nella West Bank, governata dall’Autorità Palestinese, che però di autorità dimostra di conservarne ben poca. Hamas invece (Harakat al-Muqawama al-Islamiya, ossia movimento di resistenza islamica), gruppo sempre più fondamentalista e terrorista, nato durante la prima intifada di fine anni Ottanta, imperversa a Gaza, ampiamente foraggiato dall’Iran di armi e munizioni attraverso i tunnel e gli sbarchi clandestini, mentre i due milioni e mezzo di palestinesi fanno la fame.
E questa è davvero una cartina di tornasole che rivela il senso ultimo delle strategie islamiche: mantenere le sofferenze di quella popolazione quale ferita aperta per Israele e tutto l’Occidente, incentivare la radicalizzazione dei disperati, e nello stesso tempo armare i più fanatici, sia a Gaza che in Libano. La prova è che dall’Iran e dal mondo islamico in genere gli aiuti ai civili palestinesi (alimenti, farmaci, soldi) sono stati da sempre e sono tuttora quasi inesistenti, nonostante tutti i proclami di sostegno. Mentre il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, guida da remoto gli attacchi dalla sua suite nel Four Seasons di Doha, in Qatar, proclamando “Siamo sul punto di riportare una grande vittoria e una netta conquista sul fronte di Gaza”, tra una telefonata e l’altra con la sua numerosa famiglia, tutta emigrata in Turchia e in altri Paesi.
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