Due principi hanno per lungo tempo dominato la politica estera statunitense: il cosiddetto “eccezionalismo americano” e la norma per cui “il nemico del mio nemico è mio amico”. Il primo principio ha portato a sentirsi investiti della “missione di custodi del mondo”, attuata attraverso i concetti di “regime change” e di “state building”, cioè l’esportazione, anche con le armi, del proprio modello di democrazia e ordinamento dello Stato. Ciò è avvenuto spesso senza tener conto delle particolari caratteristiche delle situazioni locali, con risultati fortemente negativi, come in Iraq e Afghanistan. Il secondo principio ha portato gli Stati Uniti ad alleanze pericolose, come il sostegno dato a suo tempo in Afghanistan ai talebani in funzione antisovietica, o quello che, secondo alcuni, sarebbe stato inizialmente dato all’Isis contro il regime di Assad in Siria.



Il dissolvimento dell’Unione Sovietica, inoltre, ha rappresentato per molti la conferma del successo di quello che veniva definito il “Secolo americano”. Al bipolarismo Usa-Urss si sostituiva l’unipolarismo americano e la conseguente imposizione della pax americana su larga parte del mondo. La realtà si è invece dimostrata molto diversa, sostituendo al precedente bipolarismo un crescente multipolarismo che, accanto agli Stati Uniti, vede protagonisti i vecchi avversari Russia e Cina e nuovi attori, come l’India.



Una parte dell’establishment politico statunitense, tuttavia, sembra non arrendersi al fatto che il “Secolo americano” è giunto al termine con un risultato decisamente inferiore alle aspettative. All’interno di questo quadro vanno comprese l’elezione di Donald Trump e la sconfitta di Hillary Clinton, così come la politica di Trump e l’opposizione dei suoi avversari. In realtà, Trump ha cambiato più le modalità di azione che gli obiettivi: “Make America great again” vuole infatti riaffermare gli Stati Uniti come “dominus” del mondo, non per imperativi più o meno morali, spesso usati come paravento, ma per la loro superiorità di fatto, economica, scientifica, militare. Nell’attuale scenario multipolare, la strategia di Trump sembra basarsi su una serie di iniziative bilaterali in campo politico, economico, commerciale e militare, nelle quali gli Stati Uniti devono, comunque, rimanere in una posizione predominante.



La politica estera di Barack Obama è stata spesso accusata, con qualche ragione, di essere incerta; quella di Trump può essere definita volubile e lo è, volutamente, tesa a colpire la controparte dove e quando si ritiene sia più debole. E ciò vale anche per gli alleati, ad esempio nei confronti dell’Europa: ciò che importa è quanto si ritiene utile ad “America first”, senza tante remore e fronzoli. Ciò non significa che le politiche di Trump siano sempre in linea con l’obiettivo, come nel caso della guerra tariffaria con la Cina, tutt’altro che indolore per la stessa economia americana.

La stessa “volubilità” si riscontra nelle modalità di gestione della squadra dei collaboratori, soggetta a numerose sostituzioni, in parte dovuta a questioni di carattere, ma in parte dovuta ai cambiamenti nella politica del presidente. È il caso dell’improvviso e sorprendente licenziamento di John Bolton, il duro e “guerrafondaio” consigliere per la sicurezza nazionale. Dall’esterno, Bolton sembrava esprimere bene l’approccio, un po’ da bullo, di Trump in politica estera, mentre si scopre ora che i disaccordi erano da lungo tempo forti. Bolton riteneva pericoloso l’oscillante dialogo intrapreso con la Corea del Nord e il disaccordo era aumentato di fronte alle aperture di Trump a trattative con i talebani e a un possibile incontro con il presidente iraniano, Rouhani. Il rigido “falco” Bolton non aveva evidentemente compreso che per Trump la coerenza è fare ciò che si ritiene utile, di volta in volta, alla grandezza dell’America, anche a prezzo di giravolte.

Essendo Bolton uno dei maggiori sostenitori della linea aggressiva contro l’Iran, il suo allontanamento ha provocato caute reazioni positive a Teheran, pur con un atteggiamento sospettoso tra le fazioni più rigide del regime. Al contrario, non è stata ben accolta in Israele la prospettiva di un incontro tra Trump e Rouhani “senza precondizioni”, come affermato dalla Casa Bianca, che poi ha peraltro smentito. Per il governo di Netanyahu sarebbe molto negativa una diminuzione della pressione degli Stati Uniti sull’Iran e sarà interessante vedere come tutto questo influirà nelle attuali elezioni israeliane.

Il licenziamento di Bolton ha destato preoccupazioni anche nell’altro alleato di ferro statunitense, l’Arabia Saudita, già sotto tiro del Congresso per la disastrosa guerra nello Yemen e per l’assassinio di Jamal Khashoggi. L’attacco dei ribelli Houthi ai campi petroliferi, con il blocco di circa la metà della produzione, rappresenta un altro grave colpo all’immagine dell’Arabia Saudita, anche in vista della attuazione del progetto di quotazione dell’Aramco. Riyadh ha ovviamente accusato l’Iran di essere intervenuto direttamente nell’attacco con i droni e, altrettanto ovviamente, Teheran ha negato.

Il governo saudita e quello israeliano sono uniti dalla radicale avversione verso il regime iraniano e hanno bisogno del pieno appoggio di Washington. Tuttavia, la promessa di Netanyahu, nel caso fosse confermato a capo del governo, di annettere la Valle del Giordano rappresenta un’occasione di scontro tra i due alleati di fatto. L’Arabia Saudita non può, infatti, non opporsi a una tale iniziativa, ma dall’altro lato, avrebbe molto da perdere se Netanyahu non rimanesse al potere.

In una situazione internazionale così volatile, prepariamoci a nuove sorprendenti iniziative di Trump che, non si dimentichi, è a sua volta di fronte a una difficile campagna elettorale.