Questa non è un’esercitazione. Il mantra abusato in mille war movies è invece l’avviso che regolarmente viene trasmesso dai circuiti interni delle circa venti unità navali militari aderenti al Patto Atlantico che solcano il Mediterraneo orientale da quando è iniziato il conflitto a Gaza, che ha reso tutto il quadrante una delle aree più calde ed instabili del mondo. Con un occhio sempre puntato sulle manovre in entrata e uscita da Tartus, in Siria, l’unica base militare russa nel Mare nostrum, gli Stati Uniti schierano formazioni composite (di cui abbiamo già dato conto su queste pagine), per garantire la protezione dello Stato di Israele evitando attacchi via mare e aria, e la Nato rinforza il dispositivo tentando di saturare la zona per dissuadere il possibile allargamento dei combattimenti e il coinvolgimento di altre potenze.



Nel frattempo, la Russia non sta solo a guardare. Dopo diversi mesi di lento ma costante indebolimento delle forze russe nel Mediterraneo, con l’abbandono dell’area da parte di quasi tutte le navi della VMF (Voenno-morskoj flot, la marina russa), oggi si assiste ad un significativo rinforzo. ItaMilRadar informa ad esempio che l’Admiral Grigorovich, una fregata lanciamissili, la nave principale della sua classe, con una varietà di sistemi d’arma (missili da crociera Kalibr, missili terra-aria Shtil 1), nave che aveva lasciato il Mediterraneo lo scorso aprile per la manutenzione in patria, adesso sta raggiungendo proprio Tartus.



In questo delicato intrico, l’Italia sta assumendo un profilo impegnativo: delle venti unità Nato presenti nella regione, sette sono della Marina militare italiana. Si tratta di tre fregate, un pattugliatore d’altura (OPV), una nave cisterna/ospedale, un bacino di sbarco e almeno un sottomarino. Ecco il dettaglio fornito ancora da ItaMilRadar: la fregata ITS Virginio Fasan (F591), che ha lasciato Limassol la sera del 26 novembre e ora dovrebbe operare a ovest di Cipro, come parte del Carrier Strike Group (CSG) della portaerei USS Gerald Ford; la fregata ITS Carlo Margottini (F592), che ha lasciato Cipro il 20 novembre; la fregata ITS Carabiniere (F593), che opera tra Cipro e l’Egitto; il pattugliatore d’altura ITS Paolo Thaon di Revel (P 430), che si trova a ovest di Cipro; la nave cisterna/ospedale ITS Vulcano (A5335), dirottata in Egitto perché la prevista posizione al largo di Gaza è stata giudicata inopportuna e possibile fonte di nuovi attriti; il molo di sbarco anfibio ITS San Giusto (L9894), che si trova a sud di Cipro; e il sommergibile ITS Pietro Venuti (S 528), di cui però non si conosce (ovviamente) l’esatta posizione.



Questo il dispositivo navale. Per le operazioni a terra e in cielo, le manovre dell’IDF (l’esercito israeliano) proseguono: i carri armati sono già a Khan Younis (dove si sarebbero rifugiati i leader di Hamas), la principale città nel sud della Striscia, ma si segnalano pesanti scontri anche in altre aree, come il campo profughi di Jabalia e Shejaiya, nel nord di Gaza, territorio che in teoria sarebbe dovuto essere già “bonificato”. I bilanci sono terrificanti, tra morti (si sarebbe già a 16mila palestinesi) e sfollati (almeno un milione e 200mila) senza alcuna via di fuga.

Ma in contingenze così drammatiche, è bene anche staccarsi dagli ingrandimenti e considerare prospettive a più largo raggio, che diano una prospettiva di medio termine e di orizzonti geopolitici più significativi. Al di là della difficile situazione americana, che vede un leader molto discusso minacciato dalle elezioni del prossimo anno, per di più quasi finito a raschiare il fondo degli aiuti economici e militari per gli alleati in difficoltà (non solo Israele, ma anche l’Ucraina), va considerata la postura russa, che vede invece un leader avviato alla riconferma elettorale (non ha competitor), e sostenuto sul fronte militare dagli arsenali iraniani e coreani, dalle sue milizie mercenarie e dai coscritti al fronte pescati nelle carceri.

La partita globale non si sta consumando solo ai fronti, anzi: Putin (con un mandato d’arresto della Corte penale internazionale e con circa 500mila bambini ucraini rapiti e deportati sulla coscienza), dopo aver viaggiato solo in Cina e in Iran (Paesi dove ovviamente la Corte non è riconosciuta), adesso ha scelto Arabia Saudita ed Emirati Arabi, con il malcelato intento di convincere i partner dell’OPEC a tagliare le estrazioni di petrolio, quindi riducendo le forniture, alzando i prezzi, e promuovendo il suo gas. Quella di Putin è la mossa recente più evidente, ma bisogna tener conto di tutti i profili assunti dalla Russia in zona MENA (Middle East and North Africa) con le attività militari e diplomatiche di Mosca in continua crescita, sempre sotto gli occhi di un Occidente, e soprattutto di un’Europa, distratto o indifferente, rischiando un brusco risveglio fatto di perdita di leadership, di riferimenti economici, di partenariati, di posizioni comuni per controllare i flussi migratori.

Ma il disegno geopolitico di espansione dell’influenza russa non si limita al quadrante Mena: la conquista dell’Africa sta proseguendo ad esempio in Guinea Equatoriale. Il dittatore della piccola ex colonia spagnola (conta circa 1 milione e 200mila abitanti) Teodoro Obiang Nguema Mbasogo ha stipulato con Putin (in un incontro tenuto nella residenza dello zar) accordi che legano lo sviluppo, l’economia ed evidentemente lo sfruttamento delle risorse minerarie locali (sembra non poche) ai voleri di Mosca. Non basta. Lo scorso settembre, al Cremlino, Putin aveva incontrato anche il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir: obiettivo le nuove raffinerie di petrolio che vedranno la partecipazione delle aziende russe. Mentre i rapporti con il confinante Sudan, precipitato nuovamente nella guerra civile (con i mercenari della Wagner ben presenti sul campo), erano andati intensificandosi già dal 2017, quando Putin si accordò con l’allora presidente Omar Al Bashir per la costruzione di una base navale russa nel Mar Rosso.

Tutto fa pensare, insomma, che se mai l’Occidente si risveglierà dal suo torpore geopolitico-diplomatico (e anche quando i conflitti in atto dovessero in qualche modo risolversi), si troverà a dover fare i conti con un continente africano lottizzato dalle due superpotenze “altre”, cioè Cina e Russia, con un Vicino e Medio oriente sempre più complicato, e con alleanze a geometria variabile, tipo Arabia o Qatar, Paesi dove non sempre la coerenza politica segna l’agenda dei decisori. Basta pensare ad esempio all’Arabia (dove l’alleanza con gli Usa si dimostra più che altro una conseguenza della domanda americana di energia e della necessità Saudita di protezione), che dal prossimo anno ha deciso l’ingresso nei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) allargati, insieme a Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, e Emirati, in un blocco che rappresenterà il 36% del Pil mondiale e il 47% della popolazione del pianeta. Sarà questo il nuovo ordine mondiale?

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