Partiamo come di consueto dai fatti. Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif si è recato in Cina, venerdì 9 ottobre, per una visita di due giorni dove incontrerà il suo omologo, Wang Yi. Naturalmente l’incontro va contestualizzato all’interno della partnership tra Cina ed Iran, ma soprattutto va inserito all’interno dell’accordo sul nucleare, firmato durante l’amministrazione di Obama il 14 luglio 2015.
È evidente l’importanza di questo incontro a livello di equilibri globali: sia Iran che Cina intendono infatti contrastare l’egemonia globale americana ed in particolar modo l’unilateralismo e il neomercantilismo trumpiano.
Questo incontro servirà naturalmente anche a mettere a punto alcuni aspetti specifici di questa partnership, e cioè l’investimento da parte della Cina di circa 400 milioni di dollari in diversi settori economici, ma in modo particolare in quelli del gas e del petrolio. In virtù di questi investimenti, indubbiamente ingenti e rilevanti, l’Iran a sua volta si impegnerà a garantire forniture energetiche alla Cina per circa 25 anni ad un prezzo fuori mercato.
Vediamo adesso di formulare alcune valutazioni di ordine politico sulla natura di questo incontro.
In primo luogo la visita del ministro iraniano giunge guarda caso un giorno dopo che il Dipartimento del Tesoro americano ha comunicato di aver incluso 18 banche iraniane nella black list decidendo di imporre sanzioni anche a tutti quegli istituti finanziari e bancari esteri che intendono avere rapporti d’affari con le istituzioni bancarie iraniane sanzionate. Da un lato lo scopo di questa postura offensiva americana è quello di erodere in modo graduale ma sistematico e capillare l’economia iraniana; dall’altro lato la finalità è quella di impedire che, attraverso queste istituzioni finanziarie, l’Iran possa contribuire ad alimentare le sue azioni di guerra asimmetrica e non a livello globale.
In secondo luogo l’incontro è la diretta conseguenza di quanto dichiarato il 19 settembre dal segretario di Stato Mike Pompeo, che ha reso noto che gli Usa hanno ripristinato in modo unilaterale le sanzioni Onu contro l’Iran, in precedenza congelate, poiché l’Iran non avrebbe rispettato gli impegni in materia nucleare.
Il 20 agosto Washington aveva denunciato infatti all’Onu il mancato rispetto da parte dell’Iran dell’accordo sul nucleare noto come Piano d’azione congiunto globale (Jcpoa), siglato durante l’amministrazione di Obama il 14 luglio 2015 a Vienna da parte di Iran, Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti, Germania e Unione Europea; accordo che prevede, in caso di mancato rispetto degli accordi, il meccanismo noto come snapback, che implica il ripristino delle sanzioni e dell’embargo. Più nello specifico questo meccanismo prevede che anche in caso di ritiro da parte americana dal Jcpoa gli Usa non solo hanno il diritto di prolungare l’embargo sulle armi convenzionali, ma anche quello imporre ulteriori sanzioni a Teheran. Infatti, proprio nel 2018, Trump ha preso la decisone di ritirarsi in modo unilaterale dall’accordo sostenendo la necessità di reintrodurre nuove sanzioni.
Tuttavia, rispetto alle dichiarazioni fatte nel 2018 da Trump, la novità della postura offensiva americana è rilevante: infatti il presidente americano ha sottolineato che non avrà alcuna esitazione a imporre conseguenze di ordine economico a tutte le nazioni che non rispetteranno il diktat statunitense. Del tutto ovvie le reazioni iraniane che, per bocca del ministro degli Esteri Zarif hanno sottolineato da un lato la inaccettabile prepotenza americana e dall’altro lato hanno lanciato un appello alla comunità internazionale ad opporsi agli Usa.
Tuttavia assai più significative sul piano geopolitico sono state le reazioni di alcuni paesi europei quali il Regno Unito, la Francia e la Germania, che hanno rifiutato di accettare la scadenza del 20 settembre imposta dagli Stati Uniti per ripristinare sanzioni su Teheran. Da vedersi se seguiranno anche i fatti oltre alle parole.
Prevedibili infine l’opposizione da parte di Cina e Russia, membri permanenti del Consiglio di sicurezza.
In terzo luogo, per comprendere in modo più chiaro questa reazione americana, bisogna ritornare all’8 maggio 2018, quando non solo gli Usa si erano ritirati dall’accordo nucleare con l’Iran, firmato nel 2015, ma avevano promesso di mettere in atto severe sanzioni economiche contro Teheran e i suoi partner commerciali. Queste dichiarazioni avevano segnato l’inizio di un nuovo confronto economico coinvolgendo Stati Uniti, Germania, Francia, ma anche Cina.
All’Europa è stato fatto divieto di poter acquistare il petrolio iraniano; ciò costituisce un ingente danno economico al paese mediorientale, mentre Germania, Regno Unito, Italia e Francia rischiano di rinunciare alla possibilità infatti di posizionarsi come leader in un paese a lungo chiuso all’occidente.
Nonostante le numerose dichiarazioni dei capi di Stato europei e del segretario generale delle Nazioni Unite e nonostante le promesse fatte di dover affrontare una soluzione, il margine di manovra dei leader europei è stato fino adesso comunque molto limitato.
Tutto ciò dipende non solo dall’intrinseca debolezza dell’Unione Europea rispetto agli Usa, ma è anche la conseguenza della formidabile arma che rappresenta l’extraterritorialità della legge americana. Grazie a questo strumento infatti gli Stati Uniti sono riusciti a rendere il loro sistema legale una potente arma economica. In altri termini il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha il potere di citare in giudizio qualsiasi compagnia straniera con relazioni con gli Stati Uniti e impegnata in attività fraudolente come la corruzione.
Ad esempio l’utilizzo del dollaro Usa come valuta o l’uso della casella postale Gmail conferisce al Dipartimento di Giustizia il diritto di interferire nelle pratiche commerciali di qualsiasi azienda nel mondo. Con questo tipo di mezzi gli Stati Uniti hanno una capacità di controllo totale su ciò che sta accadendo fuori dai loro confini.
Come parte dell’accordo iraniano ciò si traduce in un embargo economico che costringe l’Europa a smettere di commerciare con l’Iran senza essere in grado di impedire alle sue società di perdere i loro contratti.
Le dichiarazioni fatte nel 2018 dei più alti rappresentanti europei (dichiarazione congiunta di Francia, Germania e Regno Unito), così come il viaggio nel 2018 del presidente francese Emmanuel Macron negli Stati Uniti, non ha avuto effetto sullo stato di avanzamento del problema iraniano. La Francia in particolare ha subito un danno rilevante poiché sia la Total, sia il gruppo Peugeot-Citroen che Airbus avevano rilevanti interessi in Iran.
La Cina, approfittando di questa debolezza politica, ha deciso di mantenere e persino rafforzare le sue relazioni con l’Iran. In effetti la risposta cinese all’annuncio del presidente Donald Trump nel 2018 è stata quella di dimostrare al governo iraniano la sua forte ambizione di prosperare nelle relazioni commerciali e nelle partnership strategiche. L’Iran naturalmente ha sottolineato il ruolo costruttivo della Cina. Questa posizione cinese costituisce la logica conseguenza di un’aperta conflittualità con gli Stati Uniti caratterizzata anche dalla guerra economica tra i due paesi. Inoltre l’Iran è il più grande fornitore di petrolio per la Cina, con un quarto delle esportazioni verso il gigante asiatico.
In particolare le aziende cinesi non hanno esitato ad occupare le posizioni vacanti sul mercato iraniano lasciate scoperte dagli europei, ed in particolare dai gruppi francesi. Per quanto riguarda il petrolio, il China National Petroleum Corps (Cnpc) ha rilevato la partecipazione di Total nel giacimento di gas del sud Iran con una quota dell’80,1%. A seguito dell’accordo siglato nel luglio 2017 per un valore di 4,8 miliardi, Total deteneva il 50,1% seguito da Cnpc cinese con il 30% e Petropars iraniano (19,9). Dopo la partenza di Total dal consorzio, Cnpc ha rilevato tutte le azioni e si posiziona come un partner dominante nel campo dell’energia.
La stessa strategia è stata attuata per l’industria dell’automobile attraverso la cinese Bejing Baic.
La Cina domina quindi i settori strategici dell’economia iraniana con miliardi di dollari di investimenti e ciò sta determinando un rilevante vantaggio competitivo rispetto all’Europa, che dimostra sia l’assenza di una politica economica offensiva unitaria, a causa degli innumerevoli contrasti fra nazioni europee, sia ancora una volta la subalternità all’“alleato-nemico” americano.