“Le grandi guerre del presente sono gli effetti dello studio della storia” (Nietzsche, Aurora, aforisma 180). In un’epoca di incertezza il ritorno allo studio della storia sembra essere il rifugio di chi cerca nel passato risposte all’inquietudine del presente e strumenti per fare chiarezza sul futuro. Il ritrovato interesse verso la geopolitica si inscrive in questa tendenza, di cui il successo riscontrato dal volume di Graham Allison Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide? n’è forse l’esempio più calzante. Un successo che se ha il merito di contribuire al ripensamento generale del riduzionismo economicistico fino a ieri imperante, pone dei problemi a chi si interroga circa l’utilizzo, talvolta disinvolto, che si fa all’interno del dibattito delle categorie che provengono della geopolitica.



L’escalation diplomatica che si è infiammata in questi giorni fra Usa e Cina e le dichiarazioni del segretario di Stato americano Pompeo che dopo la chiusura del consolato cinese di Houston ha evocato il regime change e l’abbattimento della tirannide, ha rafforzato le ragioni di chi parla di una nuova guerra fredda. In tempi di campagna elettorale e di pandemia, evocare scenari cupi può essere conveniente per una serie di ragioni, ma non può sfuggire l’utilizzo strumentale che si fa di certe categorie. È evidente che mai come in questi giorni gli Usa e la Cina siano distanti, ma stupisce la facilità con cui si evocano scenari di guerra. Gran parte degli analisti descrivono tre scenari, uno in cui gli Usa riescono a isolare la Cina commercialmente e diplomaticamente, un altro in cui la Cina dopo aver superato brillantemente la crisi sanitaria riprende la sua ascesa per superare definitivamente l’economia americana e infine l’ultimo, in cui le tensioni geopolitiche in atto danno vita a una nuova guerra fredda che sancirebbe definitivamente la fine della globalizzazione.



Sorprende la superficialità di queste analisi, che se da un lato mandano definitivamente in soffitta la retorica che raccontava la virtù dei mercati capaci di autoregolarsi, dall’altro semplificano la complessità del contesto in cui gli attori strategici giocano su più tavoli e devono tenere conto di un numero considerevole di variabili.

Analizzando gli scenari che abbiamo precedentemente elencato, il primo caso enfatizza il dominio dei mari della talassocrazia americana e l’ostilità nei confronti della Cina di tutti i paesi che affacciano sul Mare Cinese e sull’Oceano Indiano e che sono rappresentati dall’Asean e l’alleanza informale del Quad. Uno scenario che non tiene conto dell’influenza della diaspora cinese nei paesi del Sudest Asiatico e sottovaluta la capacità di proiezione sui mari dei cinesi. Senza ricordare la flotta delle grandi giunche e delle “navi del tesoro” di Zheng He che fu capace di arrivare fino al Mediterraneo, la Cina conserva una tradizione marinara che sta cercando di rinverdire destinando quote di Pil sempre più consistente alla flotta e addestrando la propria versione dei marines.



Indipendentemente da queste considerazioni, ciò che viene sottovalutato è che quella forma di arcipelago capitalista fortemente integrato dei paesi del Sudest Asiatico è un esempio unico di integrazione economica regionale in cui storicamente a prevalere sono gli interessi economici e il commercio, una tendenza a cui non sfugge neanche il Giappone.

Il secondo scenario che vede la Cina trionfare nella competizione globale sovrastima la capacità cinese di reagire al decoupling in atto: se è vero che la Cina sta riorientando in senso domestico la propria economia, ha la necessità di essere il nesso di mercati di sbocco e approvvigionamento; anche per questo motivo un blocco navale Usa che chiudesse tutti i colli di bottiglia dell’Indo-Pacifico avrebbe ripercussioni gravissime – così come l’embargo petrolifero portò il Giappone ad attaccare Pearl Harbor – per l’economia cinese, ma anche per tutti i paesi dell’area che hanno un rapporto di dipendenza reciproca con Pechino. Non va dimenticato che la Cina è consapevole di non poter puntare alla leadership globale, indipendentemente dalla volontà di potenza esplicitata da Xi Jinping. Pechino non ha alcuna pretesa universalistica; il paese che si sente il centro del mondo, in continuità con la tradizione confuciana immagina se stesso come il nesso principale di un sistema di relazioni armoniose e gerarchizzate. Fanno sorridere le critiche alla Cina di chi sostiene che essa non si è dotata di un softpower su cui basare una nuova forma di egemonia. Una prospettiva etnocentrica che non fa capire a molti analisti che la Cina non punta ad esportare modelli culturali – non ne ha la forza né la capacità – ma viceversa punta pragmaticamente a creare relazioni in cui l’aspetto commerciale è quello principale. La presidenza Xi può mostrare i muscoli, ma palesando la volontà di ricongiungersi a Taiwan ha fatto un errore imperdonabile, ha, cioè, palesato l’obiettivo principale della sua strategia – un errore mai fatto nella storia della diplomazia cinese fatta di giochi di ombre e inganni – e si è messo in un vicolo cieco da cui non può uscire.

A fronte di queste considerazioni l’equilibrio che porterebbe con sé una nuova guerra fredda è lontano dall’essere raggiunto e il balance of power che seguì la seconda guerra mondiale al momento è una pura fantasia. Non può esserci una guerra fredda senza prima una Yalta, una Bretton Woods e un nuovo Piano Marshall o un nuovo Comecon, che assicurino alla propria sfera di influenza benessere e stabilità.

Il mondo che esce da una fase della globalizzazione particolarmente intensa non è ancora pronto per una divisione in blocchi. I soggetti finanziari e geopolitici in gioco sono troppi e al momento non possono essere imbrigliati in una rigida divisione in aree di influenza. Una guerra ridurrebbe la complessità sistemica, ma non risponderebbe alla logica della “trappola di Tucidide” di cui parla Allison, non sarebbe l’esito della lotta per l’egemonia globale, quanto, piuttosto, il risultato di tensioni che generalmente sfuggono al determinismo geopolitico. Non assistiamo alla sfida di una potenza in ascesa alla potenza egemone, ma alla contrapposizione di due potenze che cercano di scaricare sullo scenario internazionale le proprie tensioni interne. Un conflitto in cui a fronteggiarsi sono la classe media cinese, che inizia a guardare al futuro con il timore di perdere quanto ha conquistato, e la rancorosa classe media impoverita americana.

Il nazionalismo jacksoniano di Trump e l’autoritarismo tecnocratico di Xi sono più interessati a controllare queste forze piuttosto che a mobilitarle verso il nemico, perché una volta messe in moto rischierebbero di esserne travolti. Sono altri gli interessi che possono destrutturare quel poco che rimane del sistema delle relazioni internazionali, e vanno ricercati nel movimento vorticoso dei capitali che ora come durante la crisi del Gold Standard, sono ancora fortemente in gioco.

In definitiva può essere utile guardare alla storia, ma non per trovare ricette, soluzioni e facili comparazioni, ma piuttosto per capire ciò che per la prima volta si palesa come radicalmente nuovo. Questa è la realtà della nostra contemporaneità, che per la prima volta nella storia del capitalismo si trova senza un’unica potenza egemone. L’Olanda del Seicento, la Gran Bretagna dell’Età vittoriana e infine gli Usa nel Novecento avevano guidato il processo di espansione dell’economia mondiale. Il mondo del XXI secolo sembra troppo grande e complesso per essere governato da un’unica potenza e l’impasse in cui ci troviamo è il frutto di un’incapacità di immaginarci un nuovo mondo in cui multilateralismo ed egemonia sembrano vecchie categorie care solo agli studiosi di geopolitica. La riattivazione di categorie ispirate alla lezione di Tucidide operata da uno studioso come Allison non devono farci dimenticare che il racconto di cui ci parla Tucidide è una storia eminentemente politica, militare e diplomatica, in cui la storia stessa è uno strumento nella lotta che animava la società ateniese. Un’opera che cercava di indagare le cause del declino di Atene di cui la guerra con Sparta è l’esito fatale.

Gli storici del presente hanno tutto il diritto di seguire le tracce di Tucidide per descrivere la logica che ispira la politica di potenza, ma ridurre la complessità della nostra contemporaneità alla contrapposizione fra potenze ci farebbe dimenticare un’altra grande lezione dello storico ateniese. In un confitto egemonico non esistono solo potenze come Atene e Sparta, ma ci sono anche le vittime come i Meli che difendendo il loro diritto alla neutralità e all’autonomia persero la loro libertà, che fu sacrificata in nome dell’esercizio del potere.