La Cina è diventata in questo periodo la maggiore protagonista sulla scena mondiale, in primo luogo per il coronavirus e le eventuali responsabilità oggettive o soggettive delle autorità del Paese. Più durature, però, si prospettano le preoccupazioni e le polemiche per la “espansiva” strategia geopolitica di Pechino, che trascendono lo stretto panorama italiano, come dimostra l’intervista sul Sussidiario a Michael Herzog.
Israele è senza dubbio un alleato a tutto tondo degli Stati Uniti, soprattutto ora con gli stretti legami di Trump con Netanyahu, che hanno portato Washington ad avallare i piani di annessione di parte della Cisgiordania, mettendo a rischio i rapporti con altri alleati storici come la Giordania. Tuttavia, ciò non ha impedito che Israele cedesse a Pechino per 25 anni (rinnovabili) la gestione del porto di Haifa, strategico per quel punto fondamentale della strategia cinese che è la Via della Seta. Herzog cita anche altri investimenti importanti in infrastrutture e, punto dolente, nello sviluppo dello hi-tech, con le conseguenti preoccupazioni americane espresse dal segretario di Stato Mike Pompeo nella sua visita in Israele.
Anche importanti Stati europei, storici alleati degli Stati Uniti, si mostrano tutt’altro che alieni dall’intrattenere buoni rapporti con la Cina. Così, a proposito di porti, vediamo i cinesi ben presenti nel porto di Rotterdam e gestori del porto greco del Pireo, ceduto a Pechino dopo la crisi della Grecia “gestita” dall’Unione Europea. D’altra parte, le più esposte nella crisi erano le banche tedesche e francesi, cioè dei due Stati maggiori partner economici di Pechino in Europa. E per quanto riguarda il G5, l’atteggiamento di Germania, Francia e Regno Unito, pur cauto per i possibili problemi di sicurezza, non sembrerebbe appiattito sulla richiesta di Washington di un veto assoluto alla partecipazione della cinese Huawei.
In questo scenario, pare eccessivo porre al centro dei rapporti dell’Occidente con la Cina le simpatie filocinesi di Di Maio e di qualche esponente leghista. Come detto in un precedente articolo, anche la questione dei rapporti con la Cina di nostri ambienti governativi si inquadra nella più ampia e grave situazione di debolezza della nostra classe politica e del sistema Paese. E questo ci rende senza dubbio particolarmente vulnerabili nei confronti dell’invasività cinese.
Ciò che è invece sorprendente è la posizione degli Stati Uniti: davvero a Washington pensavano che la Cina si sarebbe rassegnata al ruolo di utile ingranaggio dell’apparato occidentale? A cosa pensavano gli occupanti della Casa Bianca mentre la Cina occupava sempre più spazi in Asia, Africa e perfino nel ”cortile di casa” sudamericano? Troppo impegnati ad esportare democrazia in Afghanistan e Medio Oriente, solo ora scoprono che quello di Pechino è un regime dittatoriale?
Forse è opportuno che statunitensi ed europei riflettano seriamente sulle loro passate politiche, tanto più che oltre Oceano il dibattito sembra essere tra chi vorrebbe sfidare militarmente la Cina e chi si “limiterebbe” a una riedizione della Guerra Fredda. Questa seconda ipotesi, pur costosa, è senza dubbio meno catastrofica della prima, dato che i cinesi non esiterebbero probabilmente ad usare la loro potenza nucleare.
Il contrasto con l’Unione Sovietica avvenne immediatamente dopo la fine della Seconda Guerra mondiale e con alle spalle un accordo, quello di Yalta, che aveva già in larga parte definite le aree di influenza. Inoltre, i tentativi di penetrazione in Occidente dei sovietici si fondavano sull’azione di “partiti fratelli”, come il PCI, terzo partito comunista dopo URSS e Cina. Anche il maoismo aveva avuto un certo successo, ma non sembra più attuale neppure per Pechino. L’attuale penetrazione cinese è essenzialmente economica e utilizza la partecipazione a organizzazioni internazionali, a partire dall’Onu, in cui ha diritto di veto. Molti osservatori ritengono ora un errore l’avere ammesso la Cina all’OMC, l’organizzazione mondiale del commercio, e non del tutto a torto, visto l’uso spregiudicato delle regole da parte cinese. Così come ora al centro delle diatribe Washington – Pechino vi è l’OMS, l’organizzazione mondiale della sanità, accusata di essere asservita ai cinesi, con la conseguente sospensione del proprio apporto finanziario da parte degli Stati Uniti.
L’impressione è perciò che nessuna delle due ipotesi citate sia ormai percorribile e che l’unica strada sia quella di una intelligente e articolata azione diplomatica diretta sì al contenimento dell’espansionismo cinese, ma nell’ottica del raggiungimento di un equilibrio il più possibile stabile. Ciò renderà necessarie concessioni da entrambe le parti e la dirigenza cinese, per quanto autoritaria, parrebbe essere sufficientemente pragmatica per sapersi fermare prima dell’irreparabile. Anche se la situazione potrebbe cambiare, non è detto in meglio.
Da parte loro, gli Stati Uniti devono riconoscere che, pur mantenendo il loro ruolo guida, non possono più essere i guardiani del mondo in nome del loro “eccezionalismo”. Gli Stati europei devono sostituire una fasulla ideologia europea, strumentale ai propri scopi individuali, con una effettiva cooperazione che renda possibile per l’Europa una reale posizione centrale nel confronto. In questo senso andrebbe anche recuperato un rapporto più equilibrato con la Russia, spinta dall’attuale politica americana a una alleanza con la Cina, pericolosa per l’Occidente e per la stessa Russia.
“Vaste programme”, avrebbe detto De Gaulle, ma non paiono esservi molte altre alternative.