Il 24 ottobre – a Bruxelles in Belgio – si è svolta la riunione dei ministri della Difesa dei paesi Nato. Al di là della commovente minaccia spagnola di ritirare i missili Patriot dalla Turchia in risposta alla politica militare offensiva turca (minaccia che non si è di fatto poi concretizzata) la Nato ha deciso di non sanzionare la Turchia. Questa decisione non deve per nulla sorprendere, dal momento che la Nato non è un’organizzazione di beneficenza né un’organizzazione umanitaria, ma un’organizzazione politico-militare nata per contrastare sul piano esplicitamente militare il Patto di Varsavia.
I numerosi interessi sia nel contesto geopolitico che nel contesto dell’esportazione/importazione di armamenti non potevano che prevalere. Non poteva cioè che prevalere la ragione di Stato, parlando in termini realistici. D’altronde – per coloro che avessero una memoria claudicante – sarebbe sufficiente ricordare che uno dei paesi fondatori della Nato fu il Portogallo, che aderì ad essa nonostante la sua costituzione fosse assai lontana – se vogliamo esprimerci in termini eufemistici – dai valori delle democrazie occidentali.
In primo luogo, i contrasti di natura politica all’interno della Nato sono stati un elemento costante sia durante la guerra fredda sia in relazione alla opportunità di ampliare l’Alleanza ai paesi dell’ex Patto di Varsavia.
In secondo luogo, il ruolo della Turchia, piaccia o meno, è centrale sia per il Mar Nero che per il Mediterraneo. In terzo luogo, indipendentemente dalle scelte compiute recentemente della Turchia sia in relazione alla Russia sia in relazione alla politica offensiva in Siria, non esistono meccanismi di tipo giuridico tali da consentire un’eventuale espulsione della Turchia all’interno della Nato, alla quale, come è noto, ha aderito fin dal lontano 1952.
In quarto luogo – e questo è un dato da non sottovalutare – la presenza di dispositivi nucleari nel contesto della deterrenza nucleare prevista in ambito Nato costituisce una altra buona motivazione strategica per evitare scelte che avrebbero implicazioni imprevedibili.
Ora, al di là della questione atlantica, complessivamente parlando le scelte che sta compiendo il presidente turco vanno in una direzione assai precisa: se non c’è dubbio che la svolta neo-ottomana dell’attuale leader turco Recep Tayyip Erdogan abbia posto in essere una politica estera verso l’Asia e verso l’Europa diversa rispetto al passato, è altrettanto evidente che le scelte di Erdogan dimostrano da un lato la necessità di ampliare gli investimenti turchi, e quindi le relazioni diplomatiche e politiche, e dall’altro sono la prova della volontà di Erdogan di acquisire maggiore rilevanza internazionale.
A tale proposito sia sufficiente riflettere sul fatto che la Turchia ha fatto ingenti investimenti volti a collegare l’Asia centrale all’Anatolia attraverso una serie di infrastrutture, ferroviarie e portuali sul Mar Caspio ed energetiche attraverso il Kazakistan fino alla Cina, con lo scopo di rafforzare il ruolo di hub energetico della Turchia. Infatti il paese mediorientale è fondamentale per il passaggio dell’energia caspica diretta verso l’Europa attraverso l’oleodotto Baku-Tblisi-Ceyhan, che sta contribuendo a far sì che l’Europa possa ridurre la propria dipendenza dalla Russia.
La Turchia ha fatto un altro passo avanti verso una maggiore sinergia con l’Asia, che consiste sia nell’aver accettato armamenti provenienti dalla Russia, nonostante la Turchia sia il pilastro orientale della Nato sin dal 1952, sia nell’incremento del commercio con la Cina, che è andato via via crescendo a partire dal 2007. Due esempi: la Industrial and Commerce Bank of China nel 2015 ha acquistato la Tekstilbank, mentre il produttore di telefonia Zte ha acquistato quasi il 50% di Turk Telekom.
Il commercio turco sia con l’Iran, sia con l’India che con gli Emirati Arabi Uniti è cresciuto, ed in linea di massima le esportazioni turche di materie prime in Asia, come per esempio quelle del rame, sono aumentate, come pure sono cresciute le importazione di tessuti e computer.
Infine un altro dato economicamente rilevante è il ruolo che gli investitori giapponesi – oltre a quelli cinesi – hanno avuto nella stabilizzazione della lira turca durante la crisi del 2018. Alla luce di questi dati non deve sorprendere che la Turchia abbia aderito all’Asian Infrastrucrure Investment Bank, adesione questa che le ha consentito di avere un prestito di 600 milioni di dollari per completare il gasdotto trans-anatolico, che partendo dalla Azerbaijan attraversa la Turchia per arrivare nell’Europa meridionale.