Lo Stretto di Hormuz e quello di Malacca sono i più importanti al mondo sotto il profilo strategico. E gli Usa non possono cedere spazio alla Cina
È difficile negare la presenza di numerose costanti di natura geopolitica all’interno della storia. Fra queste certamente vi è l’importanza del controllo dei mari e degli stretti, in particolare sia per il consolidamento della egemonia economica che per quella militare. A tale proposito, ieri come oggi l’egemonia di numerosi nazioni come gli Stati Uniti o la Cina passa proprio attraverso gli snodi strategici o zone di passaggio obbligate attraverso le quali circola il commercio mondiale. Tra queste vi sono certamente gli stretti di Hormuz e di Malacca. Dal primo passa un quinto del petrolio mondiale e cioè circa 13 milioni di barili al giorno, fondamentali per l’economia petrolifera del Golfo Persico e quindi altrettanto fondamentali per la distribuzione del greggio sia in Oriente che in Occidente; questo stretto è controllato fondamentalmente dall’Iran, anche se dal punto di vista del diritto marittimo lo Stretto di Hormuz rientra nella giurisdizione dell’Oman e degli Emirati Arabi Uniti.
Non è un caso infatti che negli ultimi anni Teheran abbia minacciato di bloccarlo, minaccia che si è ulteriormente aggravata a causa del conflitto in Yemen nel quale le relazioni tra Iran e Arabia Saudita sono particolarmente tese.
È una situazione che da un punto di vista strategico viene definita di assedio e di contro-assedio, poiché da un lato l’Arabia Saudita e i suoi alleati danneggiano l’Iran in Yemen, mentre Teheran cerca di reagire penalizzando gli interessi di questi paesi proprio nello stretto di Hormuz.
Per quanto riguarda invece lo Stretto di Malacca, che unisce l’Oceano Indiano con il Pacifico, è utile ricordare che attraverso questo stretto passa il 50% del traffico marittimo mondiale. Proprio per questa ragione non deve sorprendere che qualunque azione posta in essere dalla Cina in questo contesto sia letta con timore da paesi come il Giappone e come le Filippine, ma soprattutto dagli Stati Uniti, che hanno rivolto la loro proiezione di potenza negli ultimi anni all’Indo-Pacifico. A tale proposito sia Cina che Stati Uniti hanno ormai da tempo fortissime tensioni proprio perché intendono controllare il Mar Cinese meridionale.
Ecco dunque come ancora una volta la strategia di assedio e contro-assedio serio giochi un ruolo fondamentale allo scopo di controllare gli snodi strategici per esercitare pressioni sull’avversario, sia per indebolirlo sia per consolidare o ampliare la propria posizione egemonica.
Un altro esempio altrettanto significativo è quello relativo all’annessione della Crimea da parte della Russia: questa postura offensiva da un lato ha determinato l’embargo e le sanzioni economiche da parte dell’Ue e dall’altro lato ha indotto la Nato a rafforzare il proprio posizionamento militare attraverso un vero e proprio accerchiamento a scopo di deterrenza proprio sulle frontiere russe, determinando da parte del Cremlino una reazione di contro-assedio ad esempio in Siria. Ebbene, le continue pressioni esercitate da parte della Nato sui confini russi stanno infatti inducendo la Russia ad attuare azioni di contro-assedio come quelle in Libia.
In ultima analisi, al di là dei cambiamenti di leadership politica – come quello recentemente avvenuto negli Stati Uniti – esistono direttrici poste in essere nel campo della politica estera da parte degli Stati che sono in gran parte delle invarianti o costanti che molto difficilmente possono essere modificate, se non a danno di chi compie queste modifiche e a beneficio dei propri avversari. Se ad esempio la postura offensiva attuata da Trump e dal segretario di Stato Mike Pompeo nell’Indo-Pacifico dovesse venire meno – cosa che riteniamo assai improbabile – ciò non farebbe altro che avvantaggiare non solo la proiezione di potenza cinese nell’Indo-Pacifico, ma finirebbe per consolidare la Nuova Via della seta cinese.