Concentrati, questa volta a ragione, sui nostri guai ci stiamo dimenticando che il mondo è molto più grande e vicino. Al massimo arriviamo a guardare di là dal mare, verso la Libia, il Medio Oriente, ma poco vediamo di quello che sta succedendo nel Pacifico, tra Cina e Stati Uniti, tra la Cina ed i suoi importanti vicini.
Perché un punto sembra chiaro nella lotta per la competizione mondiale tra Stati Uniti e Cina. Che l’Impero di mezzo sta uscendo molto meglio dalla crisi scatenata dalla pandemia, e non si tratta di un giudizio di valore. Così, mentre gli Stati Uniti reagiscono all’epidemia come un dragone ferito, Pechino acquista posizioni, capitalizza la situazione per espandere la sua leadership globale e ridisegnare l’ordine mondiale iniziando dal Mar Cinese meridionale. Lasciando agli Usa solo due strade: o accettare la nuova potenza o scatenare una nuova guerra fredda, come sembrano richiedere alcuni circoli a Washington.
Il coronavirus infatti ha fatto esplodere tutte le contraddizioni all’interno degli Usa, e quindi lo ha anche indebolito all’esterno, nella sua politica estera. Innanzitutto, Trump ha gestito in modo non efficiente e nemmeno autorevole l’emergenza Covid-19, che ha fatto emergere lo stato disastroso del sistema sanitario, differenze di classe e razziali paurose – basta guardare alla ripartizione dei morti – e ha segnato un punto bassissimo delle relazioni tra governo federale e Stati, tra Stati governati da democratici e quelli da repubblicani. E così alla pandemia si sono aggiunte la crisi politica e istituzionale. Ma l’uragano si è trasformato in tempesta economica, con le industria del petrolio, dello shale oil, sull’orlo del fallimento, gli aerei fermi negli hangar, i centri commerciali chiusi, e tre milioni di disoccupati per le strade americane.
Anche la politica economica per la gestione dell’emergenza è pericolosamente su di una linea di azzardo, come ha ben spiegato Giovanni Passali su questo giornale. Fino a quando sarà possibile stampare dollari senza valore?
Fratture totali attraversano la società americana, lo dimostra lo scontro virulento e senza precedenti, quasi da guerra civile, con le milizie armate (come definirle? confederate, anarco-reazionarie?) a manifestare contro il lockdown schierate contro le forze dell’ordine. Crisi che è arrivata ai piani alti delle istituzioni con lo scontro inaudito tra Obama e Trump, con lo scambio di accuse reciproche di alto tradimento, di intelligenza col nemico, di aver usato per scopi di parte gli apparati federali e la stessa l’Fbi.
E gli effetti di questo caos sulla politica estera si sono fatti sentire. Il passo falso più incredibile, forse meno noto al lettore italiano, l’ha compiuto il rappresentante speciale di Trump per il Venezuela Elliot Abrams che ha ordito un colpo di Stato contro Maduro, naufragato in una figuraccia assoluta. Di più, autogol che non fa altro che dar man forte al presidente venezuelano e mostrare l’approssimazione e improvvisazione dell’attuale amministrazione americana. D’altronde che cosa c’era da aspettarsi da uno come Abrams, con una fama assolutamente negativa, accusato di strage in El Salvador, coinvolto nello scandalo Contras, giudicato colpevole due volte dal Congresso, scelto per l’incarico odierno dal segretario di stato Mike Pompeo?
Il fatto è che l’identità americana non è fondata su basi comuni come cultura, lingua, storia, tradizione o religione ma ha due colonne portanti, la religione della libertà e il mito del successo su cui si basa la ricerca e possibilità della salvezza individuale, che fanno sì che gli Stati Uniti possano sempre e in continuazione rinnovare il mito della nazione eccezionale, “città sulla collina”, faro del mondo. Ma se le fondamenta si incrinano paurosamente, se l’identità nazionale si frantuma per lingua, religione, sesso, razza, idee politiche, entità locali, cosa succede? Non avverrà quella secessione, quella minaccia incombente all’unità nazionale?
Così annunciava il titolo del libro di Francis Bukley (American Secession: The Looming Threat of a National Breakup, 2020), noto ed ascoltato commentatore americano. E non dimentichiamoci che già una volta gli Usa sono passati per una guerra civile terribile, durata dal 1861 al 1865, che ha lasciato in eredità per cento anni la segregazione razziale, terminata certo con i Civil Rights Act del 1964 ma le cui ferite non si sono nemmeno ora completamente rimarginate.