Una sostanziale presa di distanza dai problemi posti dal Medio Oriente ha da qualche anno caratterizzato la politica degli Stati Uniti, non determinata, semmai accelerata, da Donald Trump. Un disimpegno che ha coinvolto anche l’Africa del Nord e l’Afghanistan. Per quest’ultimo, e per l’Iraq, si stanno pagando ora gli errori commessi dalle amministrazioni precedenti, come ha ben delineato Gian Micalessin nella sua intervista al Sussidiario. Ed è lecito pensare che Joseph Biden continuerà sostanzialmente questa politica, sia pure con modalità diverse da quelle di Trump.



Alcune iniziative di Trump, tuttavia, hanno aperto in Medio Oriente nuove prospettive: il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e gli Accordi di Abramo. La prima decisione ha suscitato reazioni negative nel mondo arabo ma, a parte per i palestinesi, si è trattato di reazioni in qualche modo dovute. Infatti, non hanno impedito i suddetti Accordi, cioè il riconoscimento dello Stato di Israele da parte degli Emirati Arabi Uniti, cui si sono aggiunti poi Bahrein e Sudan.



Apparentemente gli unici perdenti sono i palestinesi, ma anche per la questione palestinese potrebbe invece delinearsi una soluzione definitiva, almeno per la Cisgiordania. Con l’elezione di Biden i palestinesi si aspettano un cambiamento della politica americana nei loro confronti e un atteggiamento meno schierato con l’attuale governo israeliano. Il quale, a sua volta, può trarre vantaggio da una soluzione della questione, che porterebbe anche l’Arabia Saudita alla firma degli Accordi, portando con sé buona parte del restante mondo arabo. Tanto più che la situazione politica interna israeliana è ridiventata critica e non è da escludere una crisi di governo con l’ennesimo ricorso alle elezioni.



In questa luce va vista la riapertura, annunciata da entrambe le parti, delle discussioni tra Autorità Palestinese e governo israeliano. È probabile, però, che Hamas non aderisca a questa ripresa delle trattative e continui la sua politica di contrasto a Israele. Ancora di recente vi è stato il lancio di razzi dalla Striscia contro Israele, seguito da bombardamenti aerei israeliani. Hamas è collegata con la Fratellanza musulmana, da cui il sostegno di Qatar e Turchia, ma l’avversione dei sauditi e dell’Egitto, oltre che di al Fatah.

Si delinea così la formazione di tre raggruppamenti, legati in parte da interessi comuni e in parte da nemici comuni. Il primo è quello che vede da un lato l’Arabia Saudita, con Eau, altri Stati del Golfo, la Giordania, e Israele, uniti soprattutto dal comune nemico iraniano. A fianco della forza militare di Israele, unica potenza nucleare della regione, si schiera così quella finanziaria di Paesi forti produttori di idrocarburi. Un mercato economico interessante per gli alleati occidentali, in particolare per l’industria degli armamenti.

Da parte sua, ed è il secondo raggruppamento, l’Iran ha buoni rapporti con Russia e Cina, ma nella regione può solo contare su diverse minoranze sciite: gli alauiti siriani, gli sciiti iracheni, gli Hezbollah libanesi, gli Houthi yemeniti. Queste minoranze non sono di per sé omogenee con lo sciismo iraniano, né con la politica dell’Iran, ma utilizzano il sostegno di Teheran per le loro lotte all’interno dello Stato in cui si trovano. A sua volta, l’Iran le utilizza per disarticolare il mondo sunnita e combattere gli Stati Uniti, approfittando anche dei loro errori. Grazie anche al determinante appoggio russo, Bashar Assad ha così potuto ricostruire il suo potere in Siria, malgrado la “primavera araba” di Obama. Gli Hezbollah sono divenuti la forza principale del Libano, Paese ormai al collasso, dove i sauditi cercano a loro volta di imporsi, nella sostanziale inattività di Usa ed Europa. L’Iraq rimane un Paese sconvolto e sempre più diviso dai conflitti tra le sue componenti, arabi sciiti, arabi sunniti e curdi, anch’essi sunniti. Un esito disastroso dell’intervento militare statunitense contro Saddam Hussein e della conseguente altrettanto disastrosa gestione del periodo successivo. Il paradosso è che gli Stati Uniti usarono Hussein negli anni 80 in una lunga e inutile guerra per abbattere il regime degli ayatollah.

Il terzo raggruppamento fa capo alla Turchia di Erdogan, che vuol porsi come leader del mondo sunnita in contrapposizione con l’Arabia Saudita. Quest’ultima deriva la sua autorevolezza dalla Custodia dei Luoghi santi dell’islam, ma da Istanbul si reclama la guida del mondo sunnita in nome dell’eredità dell’impero ottomano, cui apparteneva il califfato fino alla sua eliminazione nel 1924 ad opera di Atatürk. Il sostegno della Fratellanza musulmana al regime islamico imposto da Erdogan ha generato un netto contrasto con il regime militare egiziano, acerrimo nemico della Fratellanza, uno scontro che si è reso del tutto evidente in Libia. Sembrerebbe invece esservi un rapporto di “neutralità armata” con l’Iran, con qualche punto di contatto come l’appoggio iraniano ad Hamas.

Joe Biden, sulla base delle sue prime dichiarazioni, rischia di avere problemi con tutti e tre i raggruppamenti. La guerra nello Yemen ha provocato una delibera del Congresso, votata anche dai Repubblicani, diretta a sospendere la vendita di armi all’Arabia Saudita. La delibera è stata bloccata da Trump, ma sarà difficile per Biden non darvi corso, aumentando le tensioni già in atto con i sauditi. Sulla Turchia, è probabile che Biden assuma toni più decisi rispetto a quelli di Trump sul via libera a Erdogan in Iraq, con l’abbandono degli alleati curdi, sugli ambigui rapporti con la Russia e la controversa partecipazione turca alla Nato. Per quanto riguarda l’Iran, Biden si è detto disposto a riaprire la questione del trattato nucleare, provocando reazioni negative nei Paesi ostili a Teheran. Che, da parte sua, sembrerebbe voler alzare il prezzo per eventuali nuove trattative.

Se tutto ciò non bastasse, diversi commentatori negli States paventano azioni di Trump dirette a far terra bruciata di fronte a Biden durante il periodo di transizione fino all’insediamento a fine gennaio. E qualcuno si spinge fino ad ipotizzare azioni di guerra contro l’Iran prima del passaggio delle consegne.